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Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione – «Svelo il Marco selvaggio»

Paolini balla con uomini e cani

Correggio-Bologna

PAOLINI, perché lei, ritenuto giustamente il padre nobile del teatro civile, ha deciso di raccontare questa ‘Ballata di uomini e cani’, ovvero gli squarci della vita selvatica cara a Jack London?

«Perché avevo voglia di fare teatro d’avventura e, per una volta, di non essere sempre civile ma anche incivile». L’attore sorride: «Certo, ognuno in London ci può trovare quello che vuole, visto che lui era oltretutto un socialista in lite perenne con chiunque. A me, invece, interessava fare teatro con un peso specifico diverso».

Giunto alla seconda stagione di repliche, arriva dunque in regione (martedì e mercoledì all’Asioli di Correggio, da giovedì a domenica all’Arena del Sole di Bologna) il fortunato canzoniere teatrale di e con Marco Paolini costituito da brani tratti dalle opere dell’autore di Zanna bianca con musiche live ad esse ispirati. Lo spettacolo è costituito da tre racconti più uno ispirato agli episodi giovanili della vita dello scrittore.

Come ha scelto questi materiali?

«In realtà non ho scelto le storie che mi piacevano di più ma sono stato attratto dall’emozione della terra selvaggia, dal senso del limite che offre la natura, dal rapporto fra l’uomo e il cane. Quest’ultima è una parabola che riflette la dinamica razzista. Anche se London è più semplice di Faulkner ed è guardato con più sospetto».

Lei non recita le parole di London?

«Certo che no, uso le mie parole. Lo tradisco e in un certo modo me lo faccio assomigliare.

I racconti che ho trascritto hanno tutti come protagonisti uomini e cani, da Macchia, che è una commedia’, alla tragedia scespiriana di Bastardo fino a quel dramma secco e autobiografico che è Preparare un fuoco. Insomma, lo spettacolo è anche d’evasione. Il che non impedisce al pubblico di uscire con un qualche pensiero. Il mio mestiere è fatto di scelte, non bisogna aspettarsi da me qualcosa di definitivo».

I suoi allestimenti passano spesso in tv. Non si sente tradito da quel mezzo?

«La domanda è vecchia e presuppone che esista ancora la tv come punto di riferimento. Oggi lo spettatore è distratto da altro. L’altra sera ho interrotto lo spettacolo perché parecchie persone continuavano a messaggiare e a farsi illuminare la faccia dal telefonino come Avatar. Ma come, hai pagato un biglietto e non ti liberi dal multitasking? Bisogna imporre un’astinenza da questa ansia di connessione.

Spesso mi chiedo cosa ci scambiamo io e gli spettatori. Perché questa smania di contemporaneo rende un lusso perverso il viaggiare dietro ai pensieri e all’immaginazione».

A lei si associa l’idea di teatro di narrazione. Esiste ancora questa categoria teatrale?

«L’ultimo spettacolo di Luca Ronconi, Lehman Brothers, non è forse una grande narrazione collettiva dove passato e presente coincidono? Continuo a vedere molti esperimenti per superare la forma drammatica tradizionale. Il motivo è semplice: mancano gli autori che sappiano rendere il dialogo più vitale della conversazione. La chiacchiera ha ucciso il dialogo».

Che farà in futuro?

«Per il prossimo anno non c’è ancora uno spettacolo, ma, finita la tournée, inizierò a lavorare a un film, un’opera prima di Marco Segato. Mi occuperò della scrittura e sarò uno degli interpreti. Si intitolerà La pelle dell’orso. Dunque, un film ancora d’avventura».

Il suo pubblico resterà stupito?

«Cerco di non farmi beccare dove mi aspettano per una questione di sopravvivenza. Proprio come l’orso».

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