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Il Venerdì – Paolini e l’Ausmerzen, l’olocausto prima della Shoa

Il linguaggio della burocrazia, tenendo a debita distanza ogni cosa, consente di mettere a fuoco anche l’orrore. Dunque, al primo settembre 1941 sono stati «disinfettati 70.273 pazienti. Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare: 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate. Poi marmellata, margarina, caffè d’orzo, zucchero (…). Continuando cosí in dieci anni l’1 per cento della popolazione non graverebbe piú sulla spesa sanitaria». Disinfettati è l’anodino sostituto di fatti fuori, eliminati, sradicati. Ausmerzen, appunto, che ha un’etimologia contadina, la soppressione degli animali più deboli «prima di marzo», prima della transumanza, ché non la rallentino con il loro passo stentato. Ausmerzen come il perturbante spettacolo di Marco Paolini, un anno fa in tv e da pochi giorni in libreria (Einaudi Stile Libero, dvd di 1602 e taccuino di lavoro di 160 pagine, 25 euro), su un sistematico esperimento di sterminio, di malati fisici e psichiatrici, che fece tra i 100 e i 300 mila morti nella Germania nazista dal ‘39 al ‘42. Una specie di prova generale per i lager. Il lato b di Auschwitz, Dachau e Treblinka. La traccia infinitamente meno ascoltata della stessa partitura per un massacro. Con l’attenuante storica, se così si può dire, di aver provocato meno morti. E l’aggravante di aver preso come bersaglio vittime se possibile ancora più indifese.

L’aberrazione più specifica dell’Aktion T4, da Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo berlinese dell’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale cui fu dato l’incarico di portare avanti prima la sterilizzazione e poi l’eutanasia dei portatori di tare ereditarie, stava nella natura dei carnefici. «A me le svastiche non attraggono» dice un influenzato Paolini al telefono dalla casa sulla Riviera del Brenta, «quando le vedo in tv cambio canale. Nel senso che mi sembra di aver già sentito tutto quel che le riguarda. Qui invece vittime e carnefici non sono separati da un filo spinato. Anzi, appartengono alla stessa istituzione, un ospedale. Sono infermieri e medici da una parte, pazienti dall’altra. E i loro camici bianchi, normalmente non associati a gente malvagia, sono addiritura più inquietanti delle camice brune. Nell’utopia di “curare la società” ripulendola dai loro elementi difettosi si annidano i mostri dell’eugenetica».

La potenza di questa storia sta nella sua apparente normalità. E nei continui ritorni al presente. Paolini sul palco fissa nella Belle Époque la data di nascita dei manicomi. Piccole città con viali alberati. Posti quasi belli, in sintonia con l’epoca. Poi c’è la Grande Crisi, che ne innesca tante piccole, ma non meno devastanti. L’idea che qualcuno mangi senza lavorare, anche se è malato e quindi non ha colpa, diventa sempre più difficile da sopportare. Un lusso da tagliare in una selvaggia spending review ante litteram. Nel monologo si leggono brani da manuali ministeriali che calcolavano che una malata, una lungodegente, costava 5 milioni di marchi «pagati da gente sana e di valore». Pensate come sarebbe meglio togliere questi soldi ai matti e darli a giovani famiglie ariane! «Questa strada è scivolosissima, ma non dobbiamo illuderci di essercela lasciata alle spalle. Nei giorni scorsi ero a Pergine, in Trentino e nella vetrina di una sede della Lega Nord, sopra a un presepio, c’era un manifesto a colori circensi che diceva “Un extracomunitario sposato con quattro figli può incassare dalla provincia autonoma di Tento fino a 2000 euro al mese. Tutto questo senza lavorare. Grazie Dellai (il presidente della provincia)! Ecco, manifesti del genere andrebbero fatti togliere, qualcuno dovrebbe andare lì e spiegargli che è razzismo pericoloso. Magari non sanno neanche che nello stesso modo si esprimeva la propaganda nazista. Lo scopo di uno spettacolo come il mio è proprio dare questi strumenti. Per evitare che nella nuova guerra tra poveri qualcuno faccia leva sul fatto che tu stai male per mostrarti un altro che forse sta meno male di te per farne un bersaglio, uno juden». C’è sempre una gran voglia, quando le cose vanno male, di trovare un capro espiatorio su cui appiccicare una stella gialla.

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