La realtà della guerra , dei corpi maciullati, ma soprattutto dell’uomo che “s’imbestia”, che smette l’uomo e diviene qualcosa di sconosciuto (altro che solidarietà nel dolore), è tema che le sessanta guerre che insanguinano il mondo-sessanta!, e quella in Iraq non è nemmeno tra le più sanguinose- non riescono a trasmetterci. Sappiamo che c’è la guerra, qualcuno di noi si accorge che siamo in guerra, ma di qui a possedere una nozione della realtà della guerra ce ne passa. Le immagini dei videogames, dei film iperrealisti corrono nelle nostre teste, insieme con tonnellate di sugo di pomodoro.
Ma il sangue…Ecco, c’è qualcuno che ce ne vuol parlare. Che vuol provare a parlarcene. Marco Paolini, per esempio: al Teatro Strehler di Milano, con Il Sergente, ispirato a Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern: uno dei testi capitali (sebbene non l’unico né il migliore) sulla ritirata tragica dell’Armir tra il ’43 e il ’44 da Don, dove persero la vita, secondo le stime ottimistiche, 75.000 uomini-italiani, nostri fratelli, figli, padri, cugini.
La guerra è sempre la stessa. Un sergente di ventidue anni dell’Armir somiglia di più agli opliti greci di cui parla Senofonte nell’Anabasi che ai ragazzi del Parini.
Per capire- no, per cominciare a capire- bisogna tornare là, perlomeno vedere quei posti, toccare l’oggi di quelle terre, così diverse da allora, ma sempre povere, sempre un po’ dimenticate. Diciamo: il retro della storia.
Paolini se ne sta sul palco, assistito, con discrezione, da un “maestrino di scena” e dalle musiche di Uri Caine, molto belle. Ha a che fare con un materiale narrativo complesso, che a mio parere riesce a dominare solo a tratti. Non intendo tanto la capacità tecnica di controllare la sovrapposizione dei piani (il racconto della ritirata del ’44 e quello, incrociato, di Paolini sul Don ai nostri giorni), che è perfetta, ma quella sensibilità orchestrale che trasforma la finzione narrativa- che si articola su tanti registri- in qualcosa di totalmente credibile, per cui il lettore-spettatore avverte sulla propria pelle quell’ “imbestiamento” progressivo (dalla vita in trincea alla ritirata) che, per ora, nello spettacolo risulta solo detto.
Bellissimi, viceversa, i primi momenti della fuga, quando dopo la morte di due tenenti tocca al sergente Rigoni Stern condurre l’inizio della ritirata (o “ripiegamento”). Lo sgomento della responsabilità tocca il sergente al cuore nel momento in cui è rimasto solo, e noi percepiamo tutta la sua solitudine, quando la guerra diviene non solo una faccenda di mortai e pallottole, ma di stelle insanguinate e di neve infinita.
Così com’è bello e commovente il finale, quando un canto di donne, un pacifico canto di madri, guarisce il soldato dalla guerra-bestia che gli era cresciuta dentro.
Il giudizio finale si divide fra un elogio incondizionato e un appunto fermo. L’appunto è che il difetto da me rilevato esiste ed è da correggere. L’impressione di uno spettacolo non ancora pronto può prevalere su chi non sia in partenza un fan di Paolini (che sa bene che il teatro non si fa per i propri fan).
L’egoismo sta nell’uso del teatro, che come tutta l’arte gioca la sua scommessa-oggi più che mai- sulla capacità di riempire attraverso fatti, eventi, il vuoto di esperienza che moda, teledipendenza, giornalismo parolaio e internet selvaggi hanno scavato in noi.
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