L'"Effetto Vajont" ha fatto di sicuramente da traino, venerdì sera su Raidue, alla lunga performance di Marco Paolini, "Il Milione", omaggio a Venezia, analisi di una città e di una civiltà, cabaret di aureo livello, prova d'attore massacrante e forse eccessiva (sarà per questo che ha totalizzato "solo" 2milioni 4mila telespettatori pari al 9,85 % di share contro i 3 milioni e mezzo di "Vajont"?): due ore e quaranta, come è consuetudine di questo attore-autore che del "tutto" si fa una meta, senza un cedimento né un intoppo. La parola gli fluisce controllata, si allea alla mimica, alla gestualità corporale tutta dosata: tanto è vero che, con qualche eco di Dario Fo - ma frenato - e qualche graffio alla Beppe Grillo - ma pacato - Paolini incanta un pubblico che in gondola lo assedia e lo assiste, sullo specchio d'acqua turchese posto davanti all'arsenale con straordinari effetti di luce e di colore. Il pubblico ride, perché qui tutti capiscono le battute in venezian, tutti colgono i rimandi ai guai della città e alla sua topografia, alle usanze e al dialetto stretto, alle locuzioni e alle situazioni locali, dalle gondole ai gondolieri, ai vaporetti all'aeroporto, dai canali ai vizi degli autoctoni. Così che il pubblico, con le sue espressioni, si fa a sua volta attore e spiega, a chi di Venezia sa poco e di venezian non intende, anche quanto non è facile decifrare, in questa lunga circonvoluzione fra passato e presente di un Campagna e Sambo che sono una persona sola con due volti, rinnovati Chisciotte e Sancio di una peregrinazione tutta circoscritta alla laguna. Uno spettacolo in città, per la città, con la città: che non si allarga, purtroppo, a catturare per tutto quel tempo di quasi tre ore l'attenzione di chi è lontano, e che di allusioni e rimandi non si capacita, e soltanto ammira, al di là della partecipazione emotiva, l'abilità mimica e la dizione flessuosa, il monologo che scorre con la facilità di un rio e si innesta nell'acqua turchese con morbida facilità. Così Paolini recita Paolini, i Veneziani ridon di se stessi, Venezia scintilla di luci e riflessi, la sua storia si intarsia di aneddoti e frecciate, che non tutti, nella penisola, avranno colto: a dimostrazione che i dialetti non sono koinè, ma sono piccole lingue gelose per iniziati, e ovunque, non solo al Sud - come ci si lamenta di solito - diventano linguaggi segreti che portano in sé la loro storia e le loro stratificazioni sociali. Fra vaporetto e gondole e barchini, nell'affollarsi di spettatori ilari, Paolini mima, perora, annuncia, si contorce, accenna passi di danza, spalanca gli occhi, declama con precisione "ore rotundo", si fa gesto e parola, si adagia nell'onda della musica che segue il flusso della sua dimostrazione fra l'arrabbiato e il nostalgico. E così l'attore si fa spettacolo di se stesso, il suo testo diventa pretesto, la sua densità si diluisce come nei barbagli azzurri del liquido fondale, la comprensione e la linearità logica passano in sottordine, se ne colgono lacerti e se ne fanno piccole bandiere al sorriso. Ventitré e trenta, è finito. Bravo. Bravissimo. Ma il "Vajont" era ben altro.
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