Un'infanzia rivissuta con poesia e senza nostalgia
Marco Paolini ha presentato l'altra sera al palazzetto dello sport di Ghedi il suo "Tiri in porta"
Formidabili quegli anni, quando l'infanzia dei senza tv scopriva il mondo dentro i bordi di un campetto di gioco dove, un tiro dopo l'altro, con regole modificate dall'estro e dalla prepotenza del momento (un vera "palla strada" la definirebbe Stefano Benni) si cresceva tra liti e rivalità, batticuori e dolori.
Con "Tiri in porta" Marco Paolini (collaboratore fisso del teatro laboratorio Settimo che vedremo anche nel prossimo film di Nanni Moretti) ha offerto l'altra sera agli spettatori del palazzetto dello sport di Ghedi uno sguardo all'indietro, autentico e lieve, scevro di compiaciute nostalgie e proteso invece a reclamare spazi di libertà e di amicizia.
Narrata con il calore di venature autobiografiche e ascoltata con l'emozione forte di un collettivo "riconoscersi", la storia percorre i dieci giorni che sconvolsero il mondo di una banda di ragazzini: dentro ci sono le partite, le guerre (con tanto di cariche di bici cavalleria ed elefanteria a piedi), le esplorazioni in bicicletta, trasgressioni che prendono il sapore di una sigaretta di pannocchia, "festine" di compleanno, la prima cotta e la morte. All'azione una combriccola di quartiere, ovviamente periferico, tra campagna e città, tra il finire della vacanza e la ripresa delle scuole, tra infanzia ed adolescenza.
Tra loro anche una ragazza, la Milena (tassativamente con l'articolo) che, con un battito di ciglia e un tiro ben assestato, conquista un posto nel cuore turbato e tra le file del gruppetto. Con il supporto scenico di una sedia, le mitiche figurine dei calciatori, però formato gigante, l'attore ha solo il tono della voce e il supporto di un gesto per dare volume alle immagini evocate. Dribbla tra Piero Matto e Ciccio (tutto merenda e formaggino Mio), tra Gian Vittorio con la erre moscia e Cesarino (quello della famosa "zona" dove i palloni non arrivano mai), si improvvisa in un corso di inglese accelerato fatto di "forcing" e di "cross", ma più spesso si infila in gergo e inflessioni genuinamente dialettali.
Le battute si inseguono, ma la risata viene soprattutto dal ritrovarsi, anche nella poesia di un calcio negli stinchi, "quando il dolore c'è già e ti pare di non sentirlo e intanto parli con l'erba". Tra i "son contento ma mi dispiace", tra i gol segnati e subiti corre la vita, scoperta insieme e non nella solitudine della tv e dei videogiochi, disordinatamente e non nel tutto calcolato delle organizzazioni estive oratoriane o sociali che siano. Una crescita che passa anche attraverso la morte di un amico, però con la certezza che in alto sul traliccio c'è sempre la sua bandiera.
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