Un modo diverso di fare televisione, un modo diverso di fare teatro, un modo diverso di parlare di scienza. Tutto questo è "La fabbrica del mondo" il nuovo progetto in tre puntate di Marco Paolini e della Jolefilm che dall'8 gennaio sarà su Rai3 in prima serata. Accanto a Paolini, in veste di coautore e coprotagonista, Telmo Pievani, il filosofo della scienza, studioso dell'evoluzionismo, docente all'Università di Padova, divulgatore di alto livello; e poi Saba Anglana con i suoi interventi musicali e Marta Cuscunà con suo "teatro dei corvi" a commentare come un coro della tragedia greca quel che si dice. Si parlerà di pandemia (la prima puntata si intitola "Pipistrelli e virus"), ma anche di clima, di evoluzione, di quel pianeta fragile e interconnesso che è "Gaia".
Come è nata l'idea di lavorare con Telmo Pievani?
«Da tempo c'era una collaborazione teatrale, uno scambio fatto di domande, di ragionamenti comuni. Poi quando siamo usciti dal primo lockdown ho cominciato a interrogarmi sul mio mestiere, su quello che potevo fare in questa situazione. Mi è sembrato che il Covid ci avesse lasciato una lezione importante: la scienza non era riuscita a parlare con una voce sola e in questo modo aveva generato un caos in cui ognuno poteva dire tutto e il contrario di tutto, con la rete a fare per ciascuno di noi da amplificatore per la propria personale visione del mondo. Si è allentato il senso di un terreno comune, di una realtà condivisa e abbiamo anche capito che se questo da un lato rappresenta una immensa libertà, dall'altro non è funzionale per risolvere praticamente i problemi»
E ancora non era sorta la contrapposizione vax/no-vax.
«Ma si avvertiva già che la botta c'era stata e se non si trovava un terreno comune sulla pandemia come si potevano affrontare tutte le altre grandi questioni sul tappeto, come i mutamenti climatici, le sfide ecologiche? Il come raccontiamo la scienza cambierà le chance che abbiamo di fronte al futuro. Allora siamo partiti dall'Agenda 2030 dell'Onu, che per questo frutto di meditazioni ha obiettivi condivisibili, per narrare in modo diverso della "fabbrica del mondo" e di come ha finito per incepparsi. Di solito si parla di questo attraverso immagini potenti di documentari che mostrano ghiacciai in estinzione, orsi polari alla deriva sugli iceberg: noi abbiamo provato a rinunciare a una dimensione spettacolare che ti fa dire "wow", utilizzando al suo posto mezzi "poveri" del teatro, della rappresentazione, del racconto, non dando nulla per scontato e ascoltando voci di scrittori, di scienziati contemporanei».
Senza manicheismi perché anche la scienza può sbagliare.
«Certo, il dubbio deve essere alla base della scienza, ma quel che non conviene è dubitare del sistema scienza in quanto tale. E invece si è generata una sfiducia complessiva per colpa di una comunicazione fatta male. No bisogna confondere la democrazia delle voci con lo sfogo personale».
Si tratta dunque di trovare un modo diverso di comunicare la scienza?
«Nei momenti di crisi si apre sempre la possibilità di sperimentare, la sfida è stata quella di mettere insieme una squadra fatta di persone molto diverse. C'è una regia televisiva, quella di Fabio Calvi, ma c'è anche una regia cinematografica, di Marco Segato. Le puntate sono state scritte da autori di teatro, ma anche di cinema e di serie televisive. Ci sono parti più cinematografiche come quelle legate al personaggio di Noè, altre più teatrali come gli interventi di Marta Cuscunà».
A raccontare siete in due: l'attore che segue la linea dei ricordi e l'uomo di scienza che oggettiva le storie. Come vi siete divisi i ruoli?
«Io come attore racconto in prima persona, ricordi di un'identità costruita attraverso elementi verosimili; Telmo Pievani come uomo di scienza racconta di altre persone, per esempio degli scienziati che hanno avviato la riflessione ecologica. Il gioco funziona se ognuno dei sue comprende l'altro e riesce a inserirsi nelle sue storie. E infatti dopo un po' ci siamo accorti che nessuno dei due era sicuro di chiudere la sua storia senza interruzione da parte dell'altro».
Il personaggio chiave per la parte più vicina alla fiction è Noè. Perché lo avete scelto?
«Noi volevamo raccontare la terra non come una "casa" in cui l'uomo abita, ma come una fabbrica in cui l'uomo agisce e questo spiega la location a Valdagno. Abitare una casa è abbastanza neutro, ma le attività umane plasmano la terra, la modificano. Lo fanno tutti gli animali, anche i vermi, ma l'uomo lo fa a un livello enormemente superiore. Noè è l'operaio più vecchio di questa fabbrica, ha superato quota cento varie volte, così alla fine tocca a lui - abbiamo immaginato - trasformare in realtà gli obiettivi degli uomini. E lui "con le buone o con le cattive" - come dice - prova a farlo».
di Nicolò Menniti-Ippolito
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