Il sangue ha deciso per te. T’ha mollato. E il cane si allontana: 5, 6, 8 metri, poi si siede: «Comunque sia, io sono il cane».
Una storia a due, di uomini e di animali, raccontata sempre e solo da un unico punto di vista, disvelato appena sul finale. È il cane, è sempre stato il cane, l’unico occhio, l’unica testa. È lui che indispettisce il padrone, che se ne beffa, che resta a guardare colui che muore in attesa di trovarne un altro (di uomo) che sappia almeno accendere un fuoco.
Questa è Ballata di uomini e cani di Marco Paolini, abilissimo nello strappare, con l’ironia che gli è propria, sorrisi amari al pubblico di un Sociale gremito. Teatro nel quale l’attore si è esibito giovedì sera per la prima volta.
Con lui: il terzetto musicale composto da Lorenzo Monguzzi, voce e chitarra, Angelo Baselli, clarinetto, e Roberto Abbiati, per accompagnare le riflessioni di un insolito Jack London, scrittore a cui è dedicato lo spettacolo. Musiche alla Eddie Vedder che ben si sposano con i barili d’acciaio e i fusti in plastica bianca disseminati sul palco, simbolo di una vita bevuta. Quella di London, che fu sì uno degli scrittori più amati, ma anche un gran bevitore ( « la prima sbronza a 5 anni, la seconda a 8» ricorda). Ma soprattutto, fu un avventuriero, un vagabondo, un intellettuale non allineato. Uno che alla sicurezza delle pantofole felpate, ha preferito la brutalità del pavimento gelato.
«Immaginazione». La evoca più e più volte Paolini, quasi a voler svegliare il pubblico trentino da una vita perbenista e abitudinaria. Lo fa narrando di Macchia, il cane che torna sempre, di Bastardo, che mostra che è l’odio e non l’amore a muovere il mondo e del sofferto distacco del cane del terzo racconto, Preparare un fuoco, che abbandona il padrone in fin di vita per cercare un rifugio per sé. Perché, in fondo, « mors tua, vita mea » . E lo fa, infine, con un’ultima canzone, dedicata a uno dei tanti «cercatori d’oro» moderni che dall’Afghanistan ha raggiunto l’Italia, per poi morire, «schiacciato come un cane»
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