Mappe. Un percorso storico e sentimentale rivisitando «Il Milione» di Marco Polo
«Sui pali, pali. Sora i pali toloni, spessi, e sora tole, e sora le tole, pareti: de legno, lesiere, con porte lesiere, finestre lesiere, tetti lesieri, de paja, e intorno casoni, ma lesieri. E stalle, per bestie lesiere. Galline sì, cunici, vacche no, porcelli no. Tutto lesiero, perché è aqua e tera... coltivazion, di sabbia, lesiere: grano, bravi, sì, e dopo vite, ma tutto lesiero, e dopo intorno campi e ancora strade, lesieri, con pozzi lesieri».
È questa, la Venezia di Marco Paolini. Una Venezia dove tutto è leggero. Dai materiali usati per tirar su le case agli animali tenuti in famiglia, dalle tavole ai conigli. Per non dire delle bifore e delle trifore e insomma di tutti quei ricami architettonici così apparentemente sottili e delicati eppure in grado di reggere secoli. Ci vuole un tocco di leggerezza, per raccontare la Serenissima. Un tocco d'amore.
E Il Milione. Quaderno veneziano, il cofanetto con un libro e un dvd in uscita per Einaudi Stile libero, è una dichiarazione d'amore. Struggente, malinconica, divertita, complice. Capace di sorridere di quegli eventi che cambiarono la storia della città. Come la rivalità con Genova, la scoperta dell'America e l'apertura di nuove rotte commerciali che tagliavano fuori la città di San Marco: «Genovesi e Veneziani come can rabiosi in giro in questo mare, dove uno arriva piscia. L'altro quando arriva annusa: se sente odor de l'altro cane, alza la gamba e annaffia a semicerchio. "Ti sa l'ultima dei Genovesi?". "No. E cossa i gavarà mai fato?". "I ga scoperto l'America". "No!". "Sì!". "E'ndove?". "Deà..."». Cioè «al di là». Al di là della laguna, al di là delle campagne, al di là delle terre marciane...
Una forzatura teatrale? Per niente. Lo dice la relazione al Senato dell'ambasciatore veneziano a Madrid presso la corte di Filippo II, Federico Badoere. Il quale, dopo che già i suoi predecessori (Francesco Cappello nel 1497 e Nicolò Tiepolo nel 1532 e Marino Giustinian nel 1541 e Marino Cavalli nel 1543) avevano trascurato prima di avvertire Venezia del ritorno trionfale di Colombo dopo la scoperta dell'America poi di segnalare la crescente importanza dei nuovi traffici, scriveva nel 1557: «Sopra le cose delle Indie non mi pare di dovermi allargare, stimando più a proposito compatire il tempo che mi avanza in narrare le cose degli altri stati di Sua Maestà».
Ecco qual è l'arte dell'attore, regista e scrittore veneto: la capacità di raccontare la più bella e la più amata delle città del mondo mischiando tutto insieme. La storia e la cronaca, l'arte e l'idraulica, Giulio II e le «scoasse», le steppe dei Tartari e le steppe dei friulani che «lavoravamo insieme a costruire la Transiberiana» e«sull'ultima traversina messa giù a Vladivostok, è pieno di nomi furlani, incisi nel legno». Con un contorno di spericolati avvitamenti in omaggio alle girandole di parole di Luigi Meneghello («Spussa de peoci, bisati, baicoli, seppie, baccalà, aringhe in sal, canocie, moleche, gransi..») e aneddoti irresistibili: «Cammina, cammina e schiva: l'unica città al mondo dove per camminare in linea retta devi continuare a schivare quelli che ti vengono incontro. E non soltanto esseri umani, ma i carrettini, micidiali che svolano sui ponti. "Atension! Gambe! Gambe!.. Atension! Nylon, nylon, signora! Nylon!" Nylon vuol dire: "Signora, attenta al colant, ché il carrettino taglia!"». Paolini, scrive il co-autore Francesco Niccolini nel saggio introduttivo che ricostruisce passo passo la nascita della «ballata» de Il Milione messo in scena una decina di anni fa, è «un Marco Polo che non parte. Un disegnatore di mappe, uno che resta e prova a farsi raccontare e poi a sua volta racconta». E così era nato, lo spettacolo. Intorno a una riproduzione della stupenda «Veduta di Venezia», la mappa dettagliatissima nella quale Jacopo de' Barbari era riuscito nel 1500 a «incidere tutta Venezia, calle per calle, campo dopo campo, orto, albero, ponte, canale, palazzo, finestra, campanile, giardino, gondola e gondoliere, ondine e gabbiani compresi».
Se la celebre serata teatrale ripresa dalla Rai si svolse tutta su una chiatta con gli spettatori affollati su barche e barchette come la sera della festa del Redentore, Marco Paolini ha scelto stavolta di «far filò» (come si diceva di quelle ore trascorse dai contadini nel tepore delle stalle dove l'affabulatore di famiglia raccontava storie che incantavano i piccini) girando il film per la laguna tra isole e barchini, canne e bilance da pesca, barene e palafitte. Con una escursione nel deserto tunisino insieme con il violoncellista Mario Brunello, deciso a far conoscere al nostro «la perfezione acustica della sabbia». Con l'aggiunta, nel tentativo di stare alla larga dalle immagini stereotipate della «Disneyland lagunare» di oggi, di filmini amatoriali girati in Super8 che raccontano la Venezia degli anni Sessanta e dell'alluvione del 1966. Quella cantata da Alberto D'Amico: «Cavàrte dal fredo, dall'umidità / dai muri bagnài, dal letto geà / portarte distante, fora de qua / trovarte una casa, la comodità... Xe fredo, xe acqua, xe tutto allagà / e semo più fondi de un anno fa. / Soto la tola un metro de mar, / te sciopa la gola, te vien da sigàr».
Era un sogno, per i veneziani costretti a vivere in case umide dai letti gelati, andarsene via, in fabbrica, in una casa vera, coi termosifoni e le finestre di alluminio, magari all'ombra delle ciminiere di Marghera la cui nascita era stata salutata con versi spiritati: «Sorgesti per incanto dal pantano / tra il gracidar delle noiose rane, / tra immenso stuolo di zanzare! / Sorgesti con il ferreo impianto immane / di fabbriche fumanti sovra il mare!». Si era ridotta a 70 mila abitanti, la Venezia storica e insulare, quando l'attore mise in scena la prima volta Il Milione: «Vanno via otto al giorno, quattro alla mattina e quattro al pomeriggio». Adesso è scesa a sessantamila. Meno di Fano, Vigevano, Molfetta. E il racconto di Paolini, venato di ironia, appare sempre più attuale, amorevole, commosso. E insieme, qua e là, corrosivo. Come nella fotografia dei turisti insaziabili che si perdono per le calli decisi ad abbuffarsi di tutte ma proprio tutte le leccornie della beautiful Venice: «Ce ne sono che girano a Venezia da anni, li riconosci perché ogni tanto, pur avendo l'indicazione stradale sopra la testa, ti chiedono: "Schiusmi... Frari?". "Deà". "Schiusmi... Accadimio?". "Deà". "Schiusmi... Copisaro?". "Eh? Copisaro? (..) Ca' Pesaro?". "Yes, Copisaro". "Deà"».
E i colombi? Come dimenticare i colombi di San Marco schiavi della dipendenza dal mais dei turisti? «I pare tuti fati, i xe là che i domanda la carità: "Dame calcossa, dài, dame calcossa...". Ognun che aspetta il suo pusher di fiducia: “Dame calcossa, dài, dame calcossa...". Se ti ghe tiri calcossa nol vola mia, el va torseo caminando, i xe tuti desfai, rovinai...». L'unica città al mondo «dove volano i leoni e camminano i piccioni». L'unica dove vedi dei giapponesi che si fanno fare la serenata alle nove di mattina «Ghe piase? No ghe piase, ma i ga comprà el viaggio tutto pagato: se ti paghi de più ti ga 'a serenata a mezzanotte, se ti paghi manco ti a ga ae nove de matina. Pagada 'a xe pagada, e alora va ben».
Un percorso a zonzo. Tra le calli e la storia, l'italiano e il dialetto, gli intromettitori «che agganciano i turisti e li impacchettano» al Tronchetto e le chiusure dei venessiani verso gli altri: «Ze dieze ani che sto a Casteo e i me dite ancora Zudeo». Un itinerario un po' sghembo, di chi non è mai riuscito a imparare l'arte di spingere una barca con un remo solo, fino a girare su se stesso ma senza mai fermarsi: «Anche perché non ho mai pensato che nella vita, per procedere, si debba necessariamente andare in linea retta».
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