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Corriere della sera – Il teatro non può risarcire l’ingiustizia

La frontiera, la grande avventura, la corsa all'oro. London è fra i suoi autori preferiti. A Marco Paolini piace leggerlo, ma in teatro preferisce raccontarlo. «Le parole cambiano, ma restano le storie» spiega. E restano i personaggi, gli uomini che si affannano e i cani che li guardano. Che cosa si vede attraverso gli occhi dei cani? «Nei suoi romanzi London fa ragionare gli animali, attribuisce loro pensieri, e proprio in quel periodo di fervente darwinismo, di fanatismo scientifico, suona come uno scherzo, una provocazione. Persino il presidente degli Stati Uniti si arrabbiò moltissimo per Il richiamo della foresta. London gli rispose in un articolo, raccontando i suoi giochi con gli animali in un cortile. Mettendo alla prova le aspettative del cane, quando queste venivano tradite, nei suoi occhi si leggeva delusione per il comportamento stupido dell'uomo, ma anche il dubbio. Nel suo sguardo e spesso i cani di London hanno questo sguardo l'animale si chiede "uomo, ma ci sei o ci fai?". Il punto di vista del cane è interessante perché è estraniante, serve per smascherare gli eccessi dell'essere umano». Ma non è solo una storia di confronti uomo-animale.«Lo spettacolo risponde anche a un sano desiderio d'avventura. Mi sarebbe piaciuto moltissimo fare uno spettacolo veramente western, ma mi vergognavo. La frontiera americana non è la mia frontiera, così ho bastardato spunti, stimoli, storie americane con immagini che appartengono al mio orizzonte. In fondo anche nelle corse all'oro, compresa quella del Klondike nel '98 di cui parla London, la gente veniva da ogni parte del mondo, per quell'avventura erano partiti anche friulani o bellunesi come me. Nello spettacolo ci sono anche musiche di Verdi, perché erano diventate subito dei successi, facevano parte del repertorio delle bande americane. Basta vedere l'influenza dell'opera di Donizetti, Rossini e lo stesso Verdi su Walt Whitman».Parte del suo lavoro è legata al teatro civile. Stasera è a Brescia, la città della strage, dove infiniti gradi di giudizio non sono riusciti a stabilire una verità processuale. Come si può costruire una coscienza civile senza la verità storiche? E come si possono costruire verità storiche senza certezze processuali? «Una domanda che io stesso mi sono posto, ma non ho una risposta. Quello che è certo è che mi rifiuto che il luogo del risarcimento sia il teatro. Ho letto anche l'ultimo libro di Benedetta Tobagi sulla Strage, mi ha molto colpito, perché quando vengono raccontate, le vittime tornano a essere persone e quell'orrore avrà i loro occhi. La riduzione del dramma non può però diventare consolatorio. La magistratura si è più spesso preoccupata di scrivere la storia invece che chiudere i processi. Se invece di ragionare come Pasolini (io so ma non ho le prove) avessero sistematicamente inchiodato pezzi di puzzle, la ricostruzione degli storici sarebbe più solida, si poggerebbe su verità processuali. Se i giudici fanno gli storici il puzzle non regge. Quando si fa un puzzle si comincia dai bordi, gli esecutori materiali, poi si completa il quadro». Ma sono troppe le stragi senza verità. «Sono ancora furibondo per l’ultima sentenza su Ustica, che di fatto sancisce la responsabilità dello Stato, con il risarcimento delle vittime, senza però spiegare il perché, con un salto logico mostruoso sulla sparizione delle prove che di fatto nascondono l’identità di quel missile. Va bene, ti risarcisco, ma non ti dico perché. Questo è paternalismo, e il teatro non deve offrire la sponda alle mancanze istituzionali. Io so che non devo scrivere la storia, devo lasciare il dubbio: non si più chiedere a un artista di distillare delle verità. Non posso accettare il fatto che il teatro sia sostitutivo, che sia esso un risarcimento. Lo capisco umanamente, ma i veri risarcimenti devono essere le condanne, e in tempi ragionevoli, i colpevoli devono essere inchiodati alle loro responsabilità personali e poi su queste ricostruire le responsabilità collettive».

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