Se oggi in una societa' senza confini "frammentazione" sembra essere la parola chiave e "illeggibilita' del presente" la conseguenza, "Miserabili. Io e Margaret Thatcher" di Marco Paolini è specchio di questo "oggi". Lo spettacolo è dichiaratamente senza un filo narrativo, un accumulo di riflessioni che si srotolano in esempi per perdersi in rivoli di pensieri per, sempre dichiaratamente, non arrivare ad un finale, o meglio semplicisticamente appiccicando un finale-omaggio a Gaber in cui "liberta' e' partecipazione". Paolini dialoga con la Thatcher (di pessimo gusto la battuta l'alzheimer che ha colpito lei e Ronald Regan) e ironizza con un "si e' visto a che punto siamo!" sulla furia liberista della "lady di ferro", sula vittoria del privato sul pubblico, inizio di un "si salvi chi puo'". Del resto è dagli anni Ottanta che tutti ripetono ostinatamente come lei che in una societa' democratica e liberale le funzioni dello stato devono essere drasticamente ridotte: "non esiste la societa', ma gli individui e la famiglia." Paolini, in un riuscito intreccio con il trio musicale "I Mercanti di Liquore", in una sorta di lunga ballata raccontadi una società dove l' "io" e' sovrano e sempre ipertrofico, ma nn per genialità dell'individuo, ma per poter soravvivere alla competizione facendo prorio uno stilema televisivo da reality, racconta della "rata" come essenza di vita e senso di eternita', di lavoro precario, di microchip che ogni sei mesi raddoppiano la memoria " e io no!". Uno spettacolo fatto di lampi di osservazioni e di considerazioni sul nostro smarrimento e sui nuovi miserabili ai quali occorrerebbe un altro Hugo per essere raccontati.
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