In scena a Milano lo spettacolo "dedicato" a Rigoni Stern
MILANO - Dopo tanti spettacoli buoni e ottimi, perché Marco Paolini con Il Sergente, in scena allo Strehler, dà una così fallimentare prova di sé? Per molteplici ragioni. La prima è di carattere generale. Siamo in balìa di una politica ministeriale gretta, iniqua, che premia i ricchi e spazza via i poveri e i giovani: come pretendere che il teatro italiano goda di una qualche salute?
Nel rovinoso declino del teatro di rappresentazione (allestimento, più o meno tradizionale, più o meno interpretativo, di una testualità pre-esistente), il teatro di narrazione per un lustro ha offerto la chimera di una scappatoia: ma coma già vent’anni fa accadde al teatro d’avanguardia, gli artisti costretti a produrre, cioè a creare, uno spettacolo l’anno, prima o poi si ripetono, contemplando l’esaurimento della vena fantastica. Paolini sembra stritolato da un ingranaggio mercantile troppo più potente d’ogni singolo.
Poi c’è lui, Paolini con le sue virtù, con le sue caratteristiche. Qui, allo Strehler, assistiamo ad un rito di passaggio. Dal teatro d’inchiesta (Vajont, Marghera, Ustica) Paolini passa al teatro epico. Si misura con un classico della nostra letteratura, Il Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Ebbene, teatro d’inchiesta, sia pure trasposto in racconto, e teatro epico sono due realtà assai diverse.
Pensiamo ad uno scrittore coetaneo di Paolini,. il palermitano Roberto Alajmo. Scrisse un eccellente Notizie del disastro, su un catastrofico, reale, incidente di volo, e un discutibile romanzo, Cuore di madre: sembravano opere di due scrittori, non dello stesso. Come si comporta Paolini con Rigoni Stern? Come un regista con Shakespeare o con Pinter. Lo interpreta. Infatti la locandina non reca né il titolo vero e proprio del romanzo né la dicitura “di” Rigoni Stern. Paolini è radicale: il suo spettacolo “a” Rigoni Stern, lo dedica.
Il problema non è più il racconto drammatico, scintillante, argenteo dello scrittore di Asiago, ma quello di Paolini. Il problema è l’interpretazione che Paolini ne dà. E’ allora giusto ricordare cosa paradossalmente diceva Proust di Shakespeare:”meglio leggerlo che vederlo”.
Ogni interpretazione è legittima, fino al più efferato dei tradimenti: ma essa il testo lo deve arricchire.
Paolini gioca invece le sue carte epiche al modo di Baricco: cerca di coinvolgere il pubblico, ammicca, cita se stesso e gli altri, abusa del dialetto veneto o vicentino, dice battute televisivo-orripilanti (“Squadra che vince non si cambia”, “Quarantaquattro gatti…” a proposito dei gatti rimasti come unico cibo commestibile ai poveri nostri soldati dispersi sul Don; “Regina, reginetta, quanti passi devo fare?” ecc.). E insomma: l’interpretazione di Paolini, invece che arricchirlo, il testo di Rigoni Stern lo impoverisce. Giustamente Il Sergente della neve diventa un dimezzato e generico Il Sergente. E infine: Paolini scade non solo nella consuetudine populista; come Benigni-Cerami scade nel racconto di un’odissea dolorosa, di una tragica vicenda comune, come fosse cosa su cui si può scherzare, intrattenere, dilungarsi. La sobrietà di Rigoni Stern non è che un ricordo. Paolini si dilunga, stira il suo racconto fino all’inverosimile (125 minuti), mette a dura prova la pazienza degli spettatori. Rigoni Stern ha pietà, di sé e di tutti: “Dicevo Buon Natale anche ai russi, a Mussolini, a Stalin”; oppure: “Prima dicevamo il rosario, poi cantavamo, poi bestemmiavamo”, o ancora: “Caddi ma non ruppi il fiasco. Bisogna saper cadere”. Paolini, al contrario, se il sergente della neve scrive che le pallottole miagolavano, si mette a dire “miao” e, credendo d’essere simpatico o spiritoso, non è che vittima del proprio egocentrismo.
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