“Da Caporetto al processo del Petrolchimico”, un altro capitolo buio della vita italiana
Il 25 a Castiglioncello comincia il percorso pubblico del nuovo non-spettacolo allestito con Francesco Niccolini
Il 25 ottobre, al Castello Pasquini di Castiglioncello, Marco Paolini presenta un nuovo spettacolo, “Storie di plastica”, dedicato alla vicenda del Petrolchimico e al processo Eni-Montedison. Naturalmente, conoscendo Paolini la parola spettacolo è impropria. Ed è impropria anche l’idea di una “prima”: “Rifiuto - dice Paolini - l’idea di una prima, l’idea che "Storie di plastica", come gli altri miei lavori, sia da considerare uno spettacolo nel senso tradizionale della parola. Il mio è, prima di tutto, un lavoro di studio, di ricerca. Poi di scrittura. Passano anni prima che sia possibile pensare a una forma definita: qualcosa che io possa scrivere e stampare”. Benché Paolini sia al lavoro dal 1998, di scritto non c’è niente; e non c’è niente nonostante Paolini già collaudi la sua nuova storia italiana presso un pubblico di studenti e di operai. Il suo più stretto collaboratore, Francesco Niccolini, drammaturgo toscano trentacinquenne, co-autore di “Vajont” e de “Il Milione”, dice che questi racconti in pubblico sono ciò che serve a Paolini per arrivare a quella forma scritta che oggi sarebbe impossibile solo congetturare. “Lavoriamo sulle carte processuali da
quasi quattro anni. In un primo momento volevamo fare una specie di "Mahabharata" italiano, uno spettacolo di nove ore, troppe per qualunque spettatore; in più, la materia è ostica. Qui si trattava, e ancora si tratta, di riassumere in una forma narrativa e drammatica una bella fetta della storia d’Italia, che comincia dal 1917 e che ancora non è finita”. La non-fine cui Niccolini si riferisce è quella del processo in via di conclusione proprio in questi giorni a Porto Marghera. Di che si tratta? “Si tratta - dicono Paolini e Niccolini - prima di tutto del Conte Volpi di Misurata. La storia comincia da Caporetto. In quegli stessi giorni in Parlamento si approvava una legge che riconoscendo lo sviluppo dell’industria siderurgica causato dalla guerra autorizzava la nascita, appunto, di Porto Marghera, vale a dire della nostra industria siderurgica. L’idea era quella di trasformare Venezia in una città moderna, stilizzata, futurista. Del resto, erano gli anni di Marinetti. Ma il progetto fu appunto di Volpi di Misurata”.
Come è nato il desiderio di raccontare questa storia? “È nato al processo e, precisamente, dal Vajont. Tutto si collega. Le acque del Vajont servivano a portare energia fino a Venezia. Ma il punto è un altro, un altro è il vero inizio. La storia è cominciata nel 1994. Un operaio in pensione, Gabriele Bortolozzo, si mise a raccogliere dati di ogni genere, soprattutto medici. Scrisse una memoria d’una novantina di pagine e la portò al magistrato. A leggerla Felice Casson rimase sbalordito e avviò un’indagine. Consultò esperti d’ogni tipo, ed è così che siamo arrivati al processo: qui si processa
l’intera classe dirigente del petrolchimico italiano. Furono coinvolti Cefis, Schimberni, Necci e, naturalmente Gardini. Gli imputati, più d’una ventina”.
Le accuse? “Colpa di strage e disastro ambientale”. Ma i dirigenti del petrolchimico, nel corso del tempo, che cosa potevano sapere? Paolini e Niccolini rispondono: “Le prime scoperte mediche risalgono al 1969-70. Nel 1972 si è sicuri di tutto. Nel 1977 gli operai vengono informati che questo prodotto, il cvm, è di natura cancerogena. Il punto cruciale del processo è proprio questo. Che cosa sapeva la classe dirigente? In più
all’aspetto medico-apocalittico se ne aggiunge un altro, quello finanziario. Alla fine della trasformazione da Montedison, a Enichem, a Enimont fino alla maxitangente, i baracconi di Porto Marghera, inutili e dannosi, furono venduti. Abbiamo consultato ingegneri, chimici, sociologi. Ma abbiamo dovuto studiare anche i problemi della finanza”.
Così, ancora una volta Marco Paolini affonda le mani in un capitolo buio della storia d’Italia. Lo fa nel suo modo: gli serve un pubblico per mettere a fuoco il proprio testo; ma gli serve un testo per saggiare un pubblico, vale a dire per essere quello che è, un narratore, cioè un narratore orale. Si è più volte sottolineato come Dario Fo sia la sua matrice. Ma se il suo metodo di lavoro, la raccolta di dati, lo studio e l’esercizio, assomigliano al lavoro di Dario Fo, e se a Fo assomiglia il lavoro sul contesto, anche il più impervio e il meno poetico della nostra storia, solo di Paolini è la contestazione assoluta del sistema teatrale italiano. Paolini ne rifiuta addirittura i postulati, l’idea stessa di spettacolo, dei suoi rituali, i rapporti con la stampa, i rapporti con un certo tipo di pubblico, la replicabilità di un accadimento che non si ripeterà mai nello stesso modo. Così, sempre è nel teatro. Ma nel caso di Paolini c’è una specie di oltranza. Nel suo caso, diventa un fatto strutturale: si colloca a metà strada, in una via tutta sua, tra la performance di matrice avanguardista e il teatro politico. Prima non s’era visto mai.
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