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Corriere Mercantile – Paolini: viaggio nelle emozioni

Partecipare ad uno spettacolo di Marco Paolini è una lunga emozione: un viaggio nella memoria, nella vita e nella morte, da condividere con un compagno d'eccezione. E nessuno può sottrarsi al fascino del racconto: anche i più giovani, che affollavano il Teatro della Corte, l'altra sera, sono rimasti incantati per quasi due ore dal sortilegio del narratore, che si presenta in scena vestito alla buona e con la barba incolta, proprio come un viaggiatore reduce da una faticosa avventura in paesi lontani.

Il palcoscenico è spoglio: solo una carta geografica e un trenino che il giovane Marco Austeri, il maestrino di scena, dispone sul proscenio allineando con cura locomotiva e vetture. Il treno è, infatti, l'elemento chiave: simbolo del viaggio e passione personale dell'attore. Poi il "maestrino" si mette alla macchina da scrivere, in un angolo. E' l'antico cronista, come quello che scriveva al seguito di Alessandro Magno, ma usa naturalmente mezzi moderni.

Lo spettacolo, intitolato "Il Sergente", si ispira al romanzo di Mario Rigoni Stern "Il sergente nella neve". Ma a Paolini non è bastata la lettura: ha voluto lui stesso ripercorrere in treno il viaggio verso il Don, attraverso la Polonia e l'Ucraina, che racconta mescolando lingua e dialetto, ora con compassione verso i deboli, ora con comica baldanza. Questa volta non c'è la denuncia, così consueta nei racconti di Paolini, ma c'è comunque la condanna implicita di tutte le guerre, di tutte le follie dittatoriali che trascinano i poveri cristi nei più spaventosi massacri.

E fa una citazione colta: come Il Sergente riuscì a portare in salvo, attraverso le sterminate pianure della Russia i 55 uomini, dei quali era rimasto a capo, così più di duemila anni prima il greco Senofonte, come racconta nell'Anabasi, riuscì a condurre i suoi soldati dal centro dell'Asia Minore sino alla salvezza. Entrambe furono spedizioni sfortunate, entrambe sono testimoniate in pagine scritte.

Ma, al di là della citazione, l'originalità dello spettacolo consiste nell'intreccio sapiente che Paolini ha fatto tra il suo attuale viaggio in treno verso il Don e lo storico ritorno dal Don dell'esercito italiano, costretto alla ritirata tra le steminate pianure russe coperte di neve, nell'inverno del 1942-43.

E in questo allontanarsi di presente e di passato il racconto si colora di piccole notazioni, spesso anche comiche, talvolta arricchite dal dialetto: infatti la commedia, che si svolge negli inaccessibili treni russi con lo sfondo della gente, che si addormenta tra montagne di fagotti in attesa paziente, fa da contrappunto alla tragedia della ritirata "nel buio".

La bravura del narratore è evidente, sia nella scelta degli spunti, sia nella scansione dei ritmi, che si creano in sintonia col respiro e coi visi del pubblico, sui quali si scagliano a volte le luci intense dei fari di scena in un reciproco scambio di punti di vista. Il tutto sembra facile, spontaneo, familiare, e non lo è. E il segreto dei grandi interpreti.

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