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Dazebao News – Teatro Argentina. Ballata di uomini e cani. Recensione

ROMA - Fin dai tempi di Sputi, quello tra Marco Paolini e Lorenzo Monguzzi – allora in veste di mercante di liquore – è stato un sodalizio vincente. È per questo che Paolini è diventato, tra l’altro, produttore dell’album da solista di Monguzzi, Portavèrta, raccolta di ballate in italiano e in dialetto protagoniste di Song n. 14, “concerto teatrale” che la scorsa estate ha toccato tra le altre tappe anche quella romana di Villa Ada.

Qualche mese più tardi e qualche chilometro più in là, su un palco di legno coperto da una scarna scenografia fatta di assi e bidoni di latta, il duo è tornato – ancora accompagnato da parte della Piccola orchestra variabile di Song n. 14, Angelo Baselli al clarinetto e Gianluca Casadei alla fisarmonica – per trascinare il pubblico ai tempi della corsa all’oro del Klondike. Tempo e luogo che – anche se pare impossibile a credersi per noi, pedagogisti del nuovo millennio – era lo sfondo ideale dei cosiddetti racconti per ragazzi di Jack London. Zanna Bianca e Il richiamo della foresta, i due romanzi in genere associati al nome di London, “sono racconti per ragazzi perché gli uomini muoiono, ma i cani in genere l’autore li lascia stare”. Eppure non sono i soli, perché nel vasto repertorio del London scrittore ci sono anche dei racconti brevi: quelli da cui Paolini prende le mosse.

La Ballata di uomini e cani, che sul palco di un Argentina pieno fino all’ultima poltrona ha intrecciato per circa due ore storie e destini nati dalla mente del London più sconosciuto, è tutt’altro che un racconto per bambini. Tre storie (e mezza) – Macchia, Bastardo, Preparare un fuoco e degli accenni alla vita dello stesso London – che indagano non solo il ben noto rapporto tra l’uomo e il suo più fedele compagno a quattro zampe, ma quello più generale tra uomini e natura. Una natura che – nel gelido inverno canadese, tra neve alta, temperature polari e trappole tese dagli indiani – ché, attenti! “in un mondo immobile quello che si muove è ostile” – è inevitabilmente più matrigna che madre.

Paolini salta, tra musica e parole, da un registro all’altro. Perché questa è la sua forza: mescolare i tempi, i toni, i gesti. Far restare il pubblico col respiro appeso per scoppiare l’istante dopo in una risata. Rallentare le frasi, trattenere il fiato, scegliere con perizia certosina la parola giusta che va proprio lì, in quel punto preciso, per rispettare i tempi comici o toccare i nervi scoperti di chi ascolta. Creare un grammelot – che sia italiano-veneto o veneto-francese poco importa – ma che non riesca, nemmeno se ci si prova, a far staccare occhi e respiro dalla scena.

E due ore passano in fretta, tra la musica di sottofondo e le parole che la dominano, anche se questa Ballata non è propriamente parte di quel teatro civile a cui il nome di Paolini è associato a imperitura memoria. Eppure il legame tra il passato e il presente c’è: si moriva ieri cercando la fortuna nella neve, e si muore oggi cercandola per mare o sotto la pancia dei camion, sulle strade di terre ostili quanto e più di quel Klondike.

E c’è di più, c’è dell’altro: perché alla fine in platea non si è solo sofferto il freddo, rischiato la morte sul patibolo, litigato con i vicini a causa di un cane indisciplinato e goloso. Mentre accadeva tutto questo, in realtà, si è fatto un viaggio tra i sentimenti più forti dell’essere umano: la paura, la compassione, l’odio. Si è scoperto che creatura fragile e insicura sia quella che domina il mondo e le sue creature, su due zampe, per meriti che a volte – e pare ormai evidente – neppure ha.

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