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Drammaturgie : Le armi di Paolini: rabbia e sarcasmo

“Parlamento chimico, storie di plastica” è il nuovo spettacolo –dopo “Il racconto del Vajont” e “I-Tigi canto per Ustica”- portato sulle scene da Marco Paolini, con cui l’artista bellunese ha dato il via, nell’area delle ex Officine Italsider di Bagnoli, a Napoli, al progetto Petrolio voluto da Mario Martone. In sostanza e come nel caso degli altri due, un confronto con gli spettatori, un non-spettacolo teatrale, nato dall’esigenza di dare voce e anima ai 157 lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera, morti perlopiù di angiosarcoma epatico a causa dell’esposizione continuata al Cvm (Cloruro di vinile monomero), e agli altri 103, ammalatisi per le stesse ragioni, ai quali il Tribunale di Venezia non ha reso certo giustizia assolvendo tutti i responsabili di questa storia nefasta. Ma anche un secolo di Storia italiana, lungo il filo che segue nascita, sviluppo, ascesa, crisi e morte di uno dei più importanti poli industriali nazionali, Porto Marghera appunto –“Petropoli” nelle parole amaramente ironiche di Paolini- con il quale si intrecciano, dagli anni ’50 in poi, le vicende della Montedison e della Enichem, vale a dire le vicende dell’industria Petrolchimica italiana. E, diciamolo subito, in questo atto d’accusa in forma teatrale, Marco Paolini ha forgiato con la rabbia e il sarcasmo, le armi del suo teatro: le parole, i pensieri, la ricerca, la memoria e la politica, in senso alto e puro. Parole, laceranti come lo scudiscio: che ulcerano la pelle del volto di coloro contro cui vengono scagliate; parole, dure come pietre: quando si imprimono beneficamente nel cuore degli spettatori, risvegliandoli da quel torpore implicito nel loro convenzionale ruolo borghese di semplici e passivi consum/attori d’arte. Pensieri, affilati come lame: se cesellano la verità per inciderla fiera e sprezzante nell’ipocrisia dei potenti; pensieri, agili, vibranti, colorati: se s’insinuano nell’anima della gente comune fecondando intelligenza e riflessione. Ricerca, appassionata, infinita, minuziosa, quindi pericolosa: rivelatrice di nascoste verità, di nascoste genti, di frammenti di vita nascosti, che per alcuni sarebbe meglio se nascosti rimanessero! Ricerca, dono d’amore: per il pubblico che va ad ascoltarlo, sperando di essere ancora una volta colpito, scosso, liberato dal peso opprimente di quel fango che la falsità, elevata a prassi esistenziale, ci scarica addosso ogni giorno. Memoria, quercia maestosa: dalle solidissime radici che affondano in un terreno fertile e ricco di frutti, chiamato Storia. Memoria come coscienza, per usare Bergson; o con Heidegger, Storia intesa come coscienza di ciò che si è in virtù di ciò che è accaduto: «chi è chiamato dalla coscienza, lo è sempre dalla lontananza» dice Heidegger. E la Storia e la Coscienza, si sa, sono strumenti pericolosi nelle mani di un “artista rivoluzionario”. Memoria, dolce nostalgia di un mondo passato: rievocazione di parole passate, di linguaggi non più comuni, di uomini semplici, di padri e di madri che sono dentro di noi, che siamo noi stessi. Politica, vera, incazzata, appassionata: gridata con disprezzo sulla faccia degli oligarchi; politica, maieutica, dialettica, trascinante: messaggio a un tempo filosofico e lirico, pieno d’amore, indirizzato ai cittadini che accorrono ad assistere ai suoi non-spettacoli, in una comune esortazione a non chiudere il cuore e l’anima difronte ai soprusi, alle ingiustizie, alle prepotenze e violenze del Potere costituito. Su tutto, la dissacrante coltre del sarcasmo, a rendere teatrale una materia ostica, un racconto nato –come in tutti gli spettacoli di Paolini- dalla incredibile capacità di cucire e sintetizzare le infinite pagine agli atti del processo al Petrolchimico, ricerche, e tanto materiale sviluppato all’interno di un laboratorio permanente e aperto a chimici, esperti di finanza, sociologi, scrittori, storici. Paolini non risparmia proprio nessuno dei tristi protagonisti di questa vicenda: dal conte Volpi di Misurata, creatore di Porto Marghera, a Eugenio Cefis; da Enrico Mattei a Mario Schimberni; da Amintore Fanfani a Raul Gardini; da Enrico Cuccia, capo indiscusso di Mediobanca -soprannominato da Paolini lo Jedi, per la sua potenza sconfinata nel mondo della finanza italiana- al conte Valerio. Tutti vittime del suo sarcasmo e delle sue amare parodie. Questa brutta storia si apre il 13 marzo 1998, nell'aula bunker di Mestre, con l’inizio del processo contro 28 tra dirigenti ed ex dirigenti di Enichem e Montedison, per la morte di 157 lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera, per l'insorgenza di patologie correlate alla lavorazione di Cvm (Cloruro di vinile monomero) e Pvc (Polivinilcloruro) in 103 casi e per i danni ambientali provocati, quantificati dall'avvocatura dello Stato in 71.000 miliardi delle vecchie lire. A scatenarlo è la denuncia dell'associazione "Medicina democratica", un gruppo di lavoratori ed ambientalisti di cui faceva parte l'ex operaio del Petrolchimico Gabriele Bortolozzo. Partito dalla triste constatazione di essere rimasto l’unico sopravvissuto tra i lavoratori del reparto CV6, presso il quale fu impiegato fino all’84, scrisse un esposto di una novantina di pagine grazie al quale l'inchiesta giudiziaria partiva nel 1994, affidata al Pubblico Ministero Felice Casson. Casson, alla fine del dibattimento, accertate le responsabilità dei vertici e dei quadri dirigenziali della Montedison, chiese un totale di 185 anni di carcere per i 28 imputati, con l’accusa di omicidio colposo plurimo e disastro ambientale, per citare i capi di imputazione più gravi. E siccome è ai vertici, dice il pubblico ministero Felice Casson, che «si puote ciò che si vuole», le richieste più pesanti riguardano i maggiori responsabili dei danni provocati dal petrolchimico di Porto Marghera: Eugenio Cefis, ex presidente sia dell'Eni che della Montedison, Alberto Grandi, ex amministratore delegato della Montedison ed ex vicepresidente di Montefibre, e il professor Emilio Bartalini, "l'anima nera" responsabile del servizio sanitario centrale della Montedison. Sappiamo tutti come è andata a finire. Il 2 novembre 2001 la prima Sezione Penale del Tribunale di Mestre, presieduta dal giudice Ivano Nelson Salvarani, dopo 150 udienze e un milione e mezzo di pagine agli atti del processo, manda assolti tutti gli imputati per i reati contestati, anche per quelli ambientali (l'inquinamento dell'aria, del suolo, del sottosuolo, delle acque lagunari e l'avvelenamento di pesci e molluschi). «Vergogna, assassini» gridano i numerosissimi presenti nell'aula bunker; «Noi siamo solo dei giudici, dovevamo rispettare il diritto penale e abbiamo fatto il nostro lavoro», si difende in conferenza stampa il giudice Salvarani. Solita storia: i profitti sono sempre privati mentre i costi sono a carico di tutta la collettività. Ma come è stata possibile una sentenza assolutoria, quando le prove di colpevolezza sembravano schiaccianti? Le motivazioni della sentenza per la Corte sono che, fino al 1973 non era noto il grado di pericolosità del Cvm, e fino a quell'epoca non c'erano comunque leggi adeguate a tutela della salute e dell'ambiente. Quindi, gli imputati, o non sapevano o non erano punibili. È difficile immaginare una sentenza più desolante di questa, che non sembra lasciare alcuna via d'uscita, se non lo sgomento e la rabbia, impotenti entrambe e che, sul piano storico e giuridico, sembra seppellire una seconda volta le vittime. Tutto questo Paolini lo denuncia, dunque, con la forza e l’ironia che lo caratterizzano e attraverso l’utilizzo, funzionale al suo modo di fare teatro, del gioco straniante, in un continuo ribaltamento prospettico dal dentro al fuori del racconto e viceversa, e attraverso una metateatralità che rinvia continuamente il teatro alla politica –colta nel suo valore etico e sociale- e la politica al teatro. Del resto, Paolini si rivolge agli spettatori chiamandoli cittadini, riecheggiando quel valore politico che il teatro incarnava per Erwin Piscator negli anni ‘20/’30 nella Germania di Weimar. Come il Piscator passato alla Volksbuhne –ma il paragone è soltanto esemplificativo- Paolini agisce con intento didattico e documentario, inserendo articoli e testi non teatrali e aprendo la scena sul microcosmo di Porto Marghera e, attraverso esso, sui momenti più drammatici della Storia italiana degli ultimi 40/50 anni. Il tutto con un occhio alla rivista, al cabaret e alle forme di happening da strada, e in una prospettiva epica in cui si saldano il momento riflessivo, didattico e satirico. Lacerante e commovente, ad esempio, è il momento in cui, servendosi di un suggestivo gioco di luci, mima lo strazio di un bambino deformato a causa dell’ingestione di sostanze chimiche. Un teatro che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, fa più che mai bene in un momento della nostra storia tanto pericoloso per la continuità della vita democratica. Un teatro che ci auguriamo possa scuotere realmente le coscienze narcotizzate dei cittadini italiani.

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