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Effetto Domino, ritratto di un Nordest che diventa parabola

La Mostra del cinema di Venezia parla veneto. Letteralmente, con la presentazione del film di Alessandro Rossetto «Effetto domino», tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore padovano Romolo Bugaro, in cui si ricostruisce una sorta di epopea veneta, raccontata attraverso i suoi miti, i suoi (non) luoghi, la sua lingua. Il libro raccontava un episodio paradigmatico di crisi, nel mondo dell'edilizia, così rappresentativo del lavoro veneto. Il film fa un passo oltre, internazionalizzando lo sguardo (anche come sforzo produttivo) e al contempo localizzando ancora di più la vicenda, ambientandola nel mondo decaduto del turismo termale. Ti film risulta così essere il ritratto di un territorio, ma anche una parabola sul tema delle trasformazioni del lavoro e dell'economia nel capitalismo globale: sistema di cui anche i più piccoli e locali degli attori sociali finiscono per essere ingranaggi vincenti o stritolati. Ne emerge un ritratto autentico, empatico, «da dentro», dei protagonisti di questo mondo: piccoli imprenditori che sognano di diventare sempre più grandi, con la loro etica ossessiva del lavoro (che non di-sdegna le scorciatoie e la corruzione), i loro sacrifici, i loro mondi familiari (profondi ma irrisolti, intensi ma colmi di non detti che diventano incapacità e limite), le difficoltà del loro rapporto con protagonisti economici più grandi di loro, ormai irrimediabilmente diversi dalla cultura del fare, riconoscibile e familiare, in cui sono cresciuti. Non c'è giudizio, nel film, ed è una sua qualità. Lo sguardo è interno, vicino, ma disincantato e anche severo, senza sconti. Ne emerge un Nordest che non riesce ad essere nemmeno veramente cattivo (i pescecani veri stanno altrove: a Milano, a Hong Kong, nelle grandi banche e nelle lontane corporation globali), ma che esprime comunque violenze primordiali anche se contenute, meschinità strapaesane, complicità di piccolo calibro. Il ritratto di un mondo che cambia, e di persone che da questo vengono inesorabilmente cambiate: credendosi protagonisti, e scoprendosi, alla fine, comprimari. Sullo sfondo di questa epopea degli sconfitti della trincea del lavoro (sono loro, più che i vincenti, ad emergere con maggiore nettezza: e il richiamo alla stagione dei suicidi degli imprenditori è esplicito) si stagliano altri temi forti del film: vita e morte (il filo rosso è una gigantesca speculazione immobiliare per costruire residenze di lusso per anziani da accompagnare verso la morte, o meglio verso l'illusione di non doverla incontrare), la famiglia (che tiene e si sfalda al contempo, con ruoli forti di donne che sostengono le debolezze di mariti che si credono onnipotenti senza esserlo, e scelte diversificate: chi resiste, chi se ne va, chi si allea al nemico), l'irriconoscibilità del presente (il grido del padre fallito alla figlia: vai via finché sei in tempo...), l'ineluttabilità del nuovo mondo economico, le grandi trasformazioni in cui i piccoli finiscono per essere stritolati anche quando recitano a proprio beneficio la parte del protagonista. Rampazzo, l'imprenditore edile intorno alla cui storia le altre si intrecciano, è nelle parole del regista «un Cristo, con il suo Giuda, le sue Marie (la moglie e le figlie), ma nessuna buona novella». E soprattutto, non riscatta i peccati di nessuno. Non salva né se stesso né gli altri. Non è un film sul Nordest. E non rappresenta tutto il Nordest, nemmeno imprenditoriale. Non c'è, qui, la parte di imprenditoria vincente, globale, cosmopolita, esportatrice, multinazionale. Qui c'è il mondo del-l'edilizia, fondato sulla solidità apparente del mattone, più rappresentativa di una lunga stagione non solo economica ma anche culturale, fatta di self made man, di gente che ha sempre lavorato sodo, non ha fatto altro, e con questo ha giustificato anche il peggio della cultura sociale che ha prodotto, inclusa l'ambizione al di là della propria capacità di ambizione, e la mistica degli schei come misura della propria realizzazione, la continua ricerca di occasioni per farne altri, senza interrogarsi sul perché. Ma lo sguardo è dolente, partecipe. E dal locale si apre a una parabola sul presente che merita la nostra attenzione. Perché ci riguarda.

 

 

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