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Europa – Marco Paolini e il richiamo della foresta

Se è vero che in questo lavoro si mette a confronto «la spietata stoltezza umana con la lucida istintività animale» non poteva che raccontare dal punto di vista del cane Marco Paolini, in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 2 febbraio con Ballata di uomini e cani, il suo personale tributo a Jack London, a cui «devo parte del mio immaginario di ragazzo, benché non sia affatto uno scrittore per ragazzi».

È ironico, sagace e seduttivo il protagonista di questa narrazione accompagnata dalle musiche e dalle ballate di Lorenzo Monguzzi. E ha la battuta appuntita che arriva sempre, quando meno te l’aspetti, a prendere per i fondelli le manie e la pochezza di certi nostri simili antropomorfi, quelli, per intenderci che «ogni cosa al suo posto un posto per ogni cosa» già di prima mattina, o i masochisti amanti (perlopiù francesi) di «foglie morte e di cose tristi».

In verità Paolini si presenta come se intendesse assumere i panni dello scrittore, «sono Jack London, immortale» e con un accento vagamente americano, conquista senza farsene accorgere il punto di vista più logico, quello del cane.

Fedele sempre, nonostante tutto, come Macchia o Bastardo, protagonisti dei primi due racconti, omonimi, oppure scaltro, anzi saggio, capace di dar seguito a un ben saldo istinto naturale, che mentre lo assolve dall’avere abbandonato il padrone morente a 60° sotto zero, gli dice «per trasmissione genetica» che a quella temperatura era meglio starsene a casa.

È in Preparare il fuoco che Paolini si dichiara, «per chi non l’avesse ancora capito, io sono il cane», e da cane (un cane attore e non già un attore cane, perché lui le mani avanti le ha messe) ha colorato il racconto di un animismo istintivo, in cui le nevi, i treni, o quel grande fiume che è andato a formare l’Alaska fossero interlocutori a cui cedere di volta in volta la parola per dire la loro, per presentarsi.

Un po’ a loro un po’ allo scrittore, per non metterlo proprio a tacere e ascoltarlo quando ci dice che la sua età dell’oro è iniziata quando ha incominciato a scrivere, che se faceva il vagabondo era perché gli piaceva, che è sui treni che è diventato socialista.

Paolini è abilissimo nel costruire una drammaturgia che «reinventa un ritmo orale» a partire dai racconti e da estratti biografici, intrecciata a considerazioni personali, battute, appunti. È abilissimo nel procedere tra dissolvenze emotive, cambi di ritmo, vere e proprie sterzate favorite dal rapporto simbiotico con le ballate e la musica suonata dal vivo da Angelo Baselli al clarinetto, Gianluca Casadei alla fisarmonica e dallo stesso Monguzzi, alla chiatarra.

È perfetto nell’interloquire con una scena beckettiana senza fare il finto surrealismo, muovendosi persino con grazia tra i tanti bidoni stile finale di partita (1 a 0 per il cane, naturalmente).

Però non rinuncia a fare Paolini. E il suo teatro civile che quando è annunciato ci piace tantissimo, qui suona un po’ come una forzatura.

Un richiamo della foresta, a volergli bene, che da tributo a Jack London è diventato ancora una volta riflessione sugli ultimi di questo mondo cattivo, che permette che un ragazzino afghano venga a morire in Italia schiacciato dalle ruote di un tir alla periferia di una grande città. Una riflessione accorata senz’altro, ma non proprio accordata.

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