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Il Cittadino – Marco Paolini:"Il mio viaggio in Italia"

“Un paese che non è più curioso degli altri è un luogo morto”

Intervista all’attore che ha debuttato con il nuovo “Bestiario italiano” che sarà a Milano alla fine di febbraio

“Non ho più storie da raccontare. Credo ormai di avere parole solo per raccontare i luoghi”. Marco Paolni inizia così il suo ultimo viaggio teatrale (che poi scopriremo presto essere anche viaggio dell’anima) a cui ha dato il titolo di “Bestiario italiano”. Una corsa a tappe lunga e intensa come un Giro d’Italia, con le stesse tappe e le stesse immagini dei paesi che attraversa, con i dialetti, gli scorci dei paesi, le strade e la gente che si accalca lungo il ciglio, dietro una curva. Ad ogni spostamento corrisponde un cambio di scena, un nuovo sipario alzato. Come nel teatro, in questo teatro di Marco Paolini, “esploratore” della scena, partito ormai molto tempo fa e ancora in viaggio.
“Viaggiare con il teatro mi ha portato a vedere città e cose che altrimenti non avrei visto, posti dove non sarei andato. Nonostante il mestiere che faccio sono un tipo pigro, sbaglio ancora a farmi la valigia, ma mi sono abituato al viaggio e quindi ormai lo metto a frutto. Tempo fa avevo calcolato che trascorrevo 53 giorni dell’anno in auto per gli spostamenti quindi mi sono detto che dovevo trovare una soluzione. E allora ho dato un senso a questo spostamento, osservando, guardando realtà e cose che non conoscevo”.
Nasce così allora questo nuovo “Bestiario”: dal panorama circostante, dai suoni che riecheggiano dalla penisola? “Lo spettacolo questa volta ha molte parti musicali, prevede anche la presenza di sei tra musicisti e cantanti in scena con me. Io non sono un musicista, un compositore; personalmente il legame più diretto con la musica per me è con il blues e con il rock; ma per portare in scena al meglio la poesia non ho esitato a usare anche i suoni, per raccontare il viaggio abbiamo quindi portato sul palco anche la sua musica, “sonorizzando” le poesie, i versi. Creando un tappeto sonoro che ci permettesse di intrecciare racconto e ritratto”.
Il risultato richiama alla mente le esperienze di gruppi come la Nuova Compagnia di Canto Popolare, un musica legata alla terra insomma. “Ripeto, non sono un musicista e quindi il rischi che corriamo è alto: siamo su un confine tra il teatro che siamo abituati a fare e il dilettantesco. Il pericolo, consapevole, è quello di fare una cosa kitsch. E poi attraverso le varie tappe che lo spettacolo affronterà, così come è nato, cambierà: a seconda dei luoghi, delle persone incontrate. Il viaggio stesso, come detto, diventa parte dello spettacolo. A Roma sarà diverso rispetto a Milano e a Firenze. Non potrei dire ora ad esmpio cosa sarà tra cinque mesi. Adesso lo porto in giro, poi tra un po’ lo fisserò”.
E il ruolo dei poeti in tutto questo? “In questo “Bestiario italiano” ci sono molti riferimenti ai poeti, ad autori di una generazione precisa, contemporanei ma non coetanei: Zanzotto, Meneghello, ma anche Alda Merini. Credo che il confronto con loro sia normale, misurare le proprie idee con quelle di chi ha vissuto prima di me è automatico. Con loro più che con quelli della mia generazione, con i quali poi rischia di scattare un meccanismo di confronto sull’oggi, di sostituzione dello sguardo. Come se si demandasse ad altri il compito di osservare; invece il mio è un richiamo a un ‘altro sguardo’”.
E la scelta come è avvenuta? “Ho deciso, e provato, a non usare solo il mio punto di vista: dopo i poeti ora voglio chiedere ad altri autori di parlare della loro terra, voglio incontrare ad esempio Bergonzoni, Riondino, farmi raccontare anche da loro, per cambiare il punto di vista sull’Italia, aggiungere elementi. Siamo solo all’inizio di questo lavoro sul viaggio”.
Tra versi di poeti e canzoni, viene fuori il ritratto di un’Italia ancora lontana, spezzettata… “I luoghi cambiano e non si può restare fermi a osservare questo mutamento: il paese reale non coincide più con quello virtuale. Diverso da quello segnato sulla carta geografica di quando andavo a scuola io, da quello segnato sulla grande carta dell’Europa: all’interno ci sono identità, differenze, cambiamenti. L’unico modo per rendersi conto di ciò, per uscire da questo radicato senso del luogo immutato è un recupero di curiosità. Un paese che non è più curioso degli altri è un luogo morto, serve una ritrovata apertura all’osservazione, alla scoperta. Tutti restiamo immobili invece, sotto la coperta comoda del Villaggio Globale, ma la globalizzazione non esiste o almeno ha una portata infinitamente minore rispetto allo sforzo che facciamo per descriverla o alle parole che usiamo continuando a invocarla. Nella realtà la gente, tutti, restiamo fermi nei nostri confini”.

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