Marco Paolini è stato ospite domenica sera a Lodi nell’ambito della stagione
di prosa delle Vigne con uno spettacolo di ottimo ritmo e di perfetta godibilità, sostenuto questa volta più dal grandissimo mestiere che dalla tensione etica e civile di altre prove teatrali, per esempio quel Sergente (tratto dal romanzo di
Rigoni Stern) che era stato programmato in un primo momento.
L’abilità di impareggiabile raccontatore di storie, comunque, in questi Appunti foresti è la stessa di sempre: l’attore trevisano incanta il pubblico (tutta
esaurita, domenica sera, la grande platea dell’Auditorum Bpi) con la fascinazione affabulatoria di un antico aedo, che pesca nell’inesauribile repertorio narrativo attinto dalla sua memoria personale e da quella dei
grandi archetipi culturali ai quali fa riferimento, da Melville («Chiamatemi Campagne», è l’incipit di tutto lo spettacolo) a Marco Polo e al suo Milione.
L’allestimento scenico, rigorosamente ridotto alla sola presenza della voce e del corpo dell’attore, impressiona ancora di più per la seducente capacità
evocativa esercitata dalla parola: noi vediamo senza difficoltà materializzarsi i canali e le calli di Venezia, i negozi di cianfrusaglie, la periferia industriale
di Marghera, le chiese e i musei affollati di turisti; ascoltiamo le
voci dei gabbiani e dei cormorani, i rumori borbottanti o scoppiettanti
di barche e vaporetti, lo sciacquettio dei remi nell’acqua lercia della laguna.
Il monologo costruisce un percorso di viaggio (immaginario e reale) in una geografia familiare: la Venezia di oggi, ma anche le carte e mappe dell’altrove – come le definisce lui – esplorate con lo sguardo curioso e appuntito dell’uomo di terraferma, che viene da una cultura contadina
e osserva con un misto di diffidenza e meraviglia tutte le contraddizioni e le meraviglie della città più strana del mondo:«Una città senza cantine – commenta Campagne – è senz’altro opera del demonio». E nell’inarrestabile
forza trascinatrice del lungo monologo si alternano osservazioni
disincantate e amare sui danni prodotti dal turismo di massa («Il turismo è un’industria pesante: obnubila il cervello, rende antipatiche le città»)
ad altre gag più lievi e mosse da puro spirito goliardico, come quella sulle istruzioni date dal personale di bordo ai passeggeri sugli aerei prima della partenza. Alla Venezia reale si sovrappone quella finta ricostruita a Las Vegas ad uso di un turismo ancora più becero di quello dei giapponesi che, in piazza San Marco o nei musei, invece di guardare le opere d’arte, si fotografano
a vicenda mentre scattano Paolini più “leggero” e surreale (molte le risate e gli applausi a scena aperta) conquista la dimensione agonistica della recitazione:
l’attore sottopone continuamente a una prova severa la concentrazione, il perfetto dominio dei gesti e la calibratura dell’energia, la scioltezza atletica
dei movimenti; il risultato è un’impressione di assoluta naturalezza,
come se battute e invenzioni narrative fossero trovate lì per lì. E sulla scelta del
tema del viaggio, centrale in questo spettacolo, è Paolini a dare la sua interpretazione decisiva: «Io da piccolo avevo l’idea di diventare Marco Polo… E forse anche per questo ho fatto questo mestiere: perché è un mestiere
che ti porta altrove; è l’idea del viaggio, dell’altrove, che sta dentro all’idea dell’attore ».
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