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Il Fatto Quotidiano – Miserabili post moderni

I miserabili: una condizione umana che tiene insieme il Victor Hugo del romanzo omonimo e il Karl Marx de “Il Capitale”. Non c’entra con la povertà o la ricchezza, e accomuna l’Ottocento al nostro tempo, quello della globalizzazione, che ha origine politicamente da Margaret Thatcher e Ronald Reagan ed economicamente con l’invenzione del walkman, da parte della Sony, nel 1979.
Crediamo d’essere postmoderni? No, siamo antichissimi. Ed è come se non ci fossimo mossi rispetto alla Rivoluzione industriale di fine Ottocento. Ma perché, si chiede Marco Paolini (Miserabili, La7, lunedì, 21.35): “Non vedo forse tornare l’Ottocento fra le nostre strade? Non vedo sbarcare dai gommoni l’Ottocento sulle nostre spiagge?”.
Paolini sceglie il simbolo del carrello della spesa per rappresentare il nostro tempo. “È questo lo spettacolo”, tiene a precisare. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di uno spettacolo? Una tale definizione in realtà gli sta stretta. La caduta del Muro di Berlino è un’occasione, forse addirittura un pretesto, per una riflessione critica sugli ultimi vent’anni e su come siamo cambiati, che certo non rinuncia alla battuta, ad alleggerire con spunti comici la potenza delle riflessioni, che ruotano intorno ad alcune leggi della fisica moderna, come quelle della meccanica quantistica, o quelle attinte al primo e al secondo principio della termodinamica.

Storia, fisica, economia, filosofia. Paolini procede così. Enuncia un principio fisico o filosofico, e poi attraverso una modalità ellittica e analogica lo applica alla comprensione del presente, servendosi anche e non esclusivamente, dello strumento della comicità. L’analogia non è mai arbitraria o speciosa, anzi. Più che uno spettacolo, la sua diventa quindi una lezione sul presente, critica filosofica ed estetica di rara intensità, nient’affatto divertente, nel senso futile della parola, premiata dal pubblico con uno share di quasi il 5 per cento, ovvero più di un milione di spettatori. Un grande successo, considerate le basse percentuali di La7.
La conclusione, con una frase fulminante, ne riassume il senso. Applicando l’irreversibilità dell’entropia alla storia e avendo come bersaglio polemico e come interlocutrice Margaret Thatcher: “Se tu dici che non esiste la società e poi ne fai a meno per vent’anni di allegro mercato, signora Thatcher, se poi ci serve ancora indietro, possiamo riaverla oppure no?”.
Così, contemporaneamente, ci insegna che cos’è l’entropia, con la perdita irreversibile di energia, e che cos’è il nostro tempo e la nostra “miserabile” condizione, con la perdita irreversibili della società. L’affermazione unica del mercato, la dissoluzione della società e dell’uomo: come diversamente raccontarle in forma più efficace, evitando il conformismo di una celebrazione acritica e trionfale della caduta del Muro?

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