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Il “filo filò” di Marco Paolini, tra riders e dinosauri, tecnologie e tradizioni.

Immaginate di trovarvi in un’isola a Porto Marghera, radunati intorno a un frigorifero-monolite insieme a tutti i vostri antenati e a un bio-macellaio e che, tra un toco de połenta e panini McDonald’s, incominciate a discutere di genoma umano, Neanderthal e smartphone.

A introdurci questo mondo surreale è l’attore e regista Marco Paolini, con il suo spettacolo “Filo Filò”, andato in scena il 2 luglio presso l’incantevole sfondo della corte della Mole Vanvitelliana di Ancona nell’ambito del festival di poesia totale “La Punta della Lingua”.

Uno spettacolo semplice, dove la scenografia è scarna, ridotta al minimo indispensabile (unici oggetti di scena: un appendi abiti, uno sgabello e una camicia di forza) e le luci hanno il solo scopo di far risaltare la figura dell’attore sul palcoscenico. D’altronde, non c’è bisogno di ambienti particolari o effetti scenici, poiché il vero protagonista dello spettacolo è il racconto orale: il palco non è il fulcro dell’azione, ma è il luogo nel quale le storie si intrecciano, gli aneddoti abbondano e dove il disorientamento verso il futuro si trasforma in riflessioni sul continuo cambiamento della società. Grazie a “filo filò” l’autore riesce a narrare la modernità e tecnologia attraverso lo strumento di comunicazione più antico al mondo: la comunicazione orale.

In questa rappresentazione non c’è una vera e propria trama delineata ma è l’insieme di un filo di storie, racconti e argomenti apparentemente senza un punto comune, ma che sono capaci di unire presente, passato e futuro grazie al flusso di coscienza di Marco Paolini. Questa particolare tecnica di narrazione non è altro che la rivisitazione teatrale del tradizionale “filò” Veneto, ossia «una veglia contadina nelle stalle durante l’inverno ma anche interminabile discorso che serve a far passare del tempo… e niente altro» (definizione ripresa dal poeta Andrea Zanzotto). Veneto che torna anche nel linguaggio dell’autore, che nonostante faccia spettacoli in tutt’Italia, non disdegna termini dialettali e riferimenti alla terra natia.

Lo spettacolo si presenta fin dal titolo come una chiacchierata, un passatempo, che espone una serie di racconti e interrogativi a cui vengono date risposte che non pretendono di essere esaustive o scientifiche, ma che possono essere prese come stimoli per riflessioni più ampie.

“Filo filò” non è uno spettacolo di denuncia, ma non è nemmeno un semplice diversivo per passare due ore in maniera spensierata e alternativa; questa rappresentazione è invece un modo di riportarci alla necessità di fermarsi un attimo, di fare il punto della situazione per riflettere e rallentare il flusso in un periodo come quello attuale di mutamenti continui, spesso troppo veloci anche per l’uomo stesso.

Non si tratta quindi di una denuncia sociale esplicita, come nel caso del famosissimo spettacolo dedicato al Vajont che ha reso Paolini noto al grande pubblico, ma è comunque una rappresentazione impegnata che affronta tematiche sociali importanti (dalla tecnologia all’ambiente, dalla scienza alla globalizzazione) con intelligenza e ironia.

Paolini con questo spettacolo si riconferma un attore eccezionale, capace di coinvolgere e catturare l’attenzione del pubblico, senza risultare mai pesante o banale. La bravura e l’esperienza dell’attore trevigiano d’altronde è evidente fin dalla durata dello spettacolo: due ore di palcoscenico, un monologo continuo senza nessuna esitazione e quasi senza interruzioni.

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