A Villa Widmann di Mira il dramma Vajont
Ultimo appuntamento estivo a Villa Widmann nell’ambito, come si dice in gergo, del “Festival delle Ville lungo la Riviera del Brenta”. Di turno un bellunese di elezione trevigiana, Marco Paolini, che vanta al suo attivo spettacoli di qualità, dal teatro al cinema.
Per restare fermi al primo, basterà ricordare “Il Re cervo”, “Libera nos” e , ‘dulcis in fundo’, “La villeggiatura” di Carlo Goldoni, rivisitata alla maniera del “Teatro di Settimo”. La novità rispetto al passato è che la proposta fatta da Paolini in occasione de “I Racconti del Campiello”, almeno secondo i bene informati, dovrebbe preludere ad un suo distacco dalla formazione piemontese con cui ha lavorato dal 1987, collezionando successi talora squillanti.
Infatti dall’anno prossimo pare intenda fare da solo, magari drammatizzando in termini più serrati (tre ore di spettacolo impiegando un registro variato appena da qualche sortita dialettale, che alla lunga diventa priva di sorpresa, corrono il rischio di passare il segno) la rievocazione d’una tragedia. Rievocazione già fatta l’altra sera nel cortile, anzi campiello (c’è perfino la vera da pozzo, sulla quale si può sedere assistendo dall’alto allo spettacolo), di villa Widmann. Vale a dire la frana del monte Toc nel lago artificiale del Vajont che ha ispirato libri d’ogni genere ed a lui un fitto monologo intitolato “Vajont, come si costruisce una catastrofe”, introdotto nel foglietto-programma distribuito al pubblico da una massima di Kundera, che dice: “La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”.
Non si pensi ad una sorta di nuova inchiesta arrivata a fatti nuovi, permettendo un discorso inedito, traumatico, a sorpresa. Con molta pazienza ed umiltà, persuaso che “nella storia di un paese ci sono nomi che sono cicatrici nel corpo della memoria”, Paolini ha ripercorso le varie fasi dell’intricata vicenda sfociata nella catastrofe di Longarone.
Infatti la sua storia in chiave di monologo deve lo spunto a “Vajont 1963” di Tina Merlin, e parte dai giorni in cui un gruppo industriale ha deciso di affidare ad un famoso ingegnere il progetto di una centrale idroelettrica da ricavare sfruttando le acque del Vajont (che in ladino significa “Vien giù”), e si conclude nell’istante in cui un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua ha scavalcato la diga spazzando via Longarone, Rivalta, Pirago, Villanova, Faè.
Ovviamente nel racconto di Paolini le cifre, i dati, i nomi, le denunce, acquistano una risonanza profonda, tuttavia alla luce di quanto ascoltato a Villa Widmann appare chiaro che la voglia di puntare l’indice nella convinzione che il teatro abbia una precisa responsabilità civile fatica non poco ad assumere il taglio della drammatizzazione. Insomma una cosa è l’impegno civile di rammemorare alla gente in un tempo che cambia il passato, un’altra rendere “Vajont” uno spettacolo degno di questo nome.
A tratti, forse, lo è, non per niente un centinaio di spettatori hanno seguito con attenzione ed applaudito, ma in altri momenti, e sono numerosi, la tensione cala, nonostante la bravura indubbia di Paolini.
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