C’è un’espressione che va per la maggiore in ambito televisivo: bucare lo schermo. Significa saper catturare l’attenzione, avere un tipo di personalità adatta al video. Però è un’espressione inflazionata dall’uso e banalizzata dal fatto che “bucano lo schermo”, tanto per dirne una, persino le sorelle Lecciso. Meglio usare un’altra espressione a proposito del robusto talento di Marco Paolini, uno che “riempie lo schermo” più che bucarlo anche al cospetto del difficile impegno di portare il teatro in televisione. Gli Album di Marco Paolini (giovedì su Raitre, ore 23.35) sono la migliore risposta alle antiche polemiche sulla presunta incompatibilità tra teatro e tivù. Strano che non si faccia una analoga e accigliata “questione di principio” per tutto il resto che il video trasmette rubandolo al suo contesto naturale: come i film, le manifestazioni sportive, i concerti musicali ecc. anche una partita vista in tivù è diversa da una partita vista dal vivo, anche un film “costretto” sul piccolo schermo non rende giustizia alla visione che se ne può avere al cinema. Ma solo per il teatro in televisione si scuote la testa con compatimento ogni qualvolta si tenta con tanta fatica di realizzarlo vincendo varie resistenze.
Certo occorre pensare, volta per volta, quale sia il modo migliore per trasferire la scena teatrale sul piccolo schermo, quali accorgimenti studiare, che tipo di adattamento studiare. Come si è fatto con intelligente pragmatismo con questi Album, monologhi di poco più di mezz’ora (la misura giusta per questo tipo di performance) intervallati da qualche estemporanea immagine girata in esterno, piccole parentesi all’interno di racconti che fotografano , ma anche assaggiano e annusano, l’atmosfera di periodi e situazioni legati alla memoria collettiva. L’altra sera Paolini ha evocato ad esempio la vita da oratorio, le lezioni di catechismo, le gite con i preti, il clima da sacrestia, i primi turbamenti sessuali, e lo ha fatto con il consueto stile che mischia poesia e osservazioni ironiche, lampi di spicciola filosofia popolare e un sorvegliata gestualità mimica sempre al servizio dell’inconfondibile accento veneto. Una bella prova, una rinfrescante aria di palcoscenico fatta circolare anche per l’etere, fino ad arrivare alle case dei telespettatori. Farà anche storcere il naso ai puristi, il teatro il tivù. Ma proposte di questo tipo ne accrescono il desiderio e la nostalgia.
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