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Il giornale – Il sergente. La guerra riletta da Paolini scuote anche i bamboccioni

Il passato ritorna. Ritorna nella memorialistica di chi a quel passato partecipò, ritorna nei documentari che la televisione con lodevole zelo elargisce, ritorna negli spettacoli – a metà strada tra la testimonianza e il teatro, o piuttosto in un riuscito amalgama di teatro e testimonianza- che il bravissimo Marco Paolini allestisce: si tratti del Vajont o si tratti- come martedì sera su La7 – della campagna di Russia. Rievocata con le parole e i fatti del “Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.

Mi sono chiesto, mentre seguivo la narrazione, e osservavo con molta attenzione gli atteggiamenti e le reazioni del pubblico, quale significato e quale importanza la remota tragedia dell’Armir possa ancora avere per gli italiani d’oggi, o diciamo piuttosto per i giovani d’oggi. Mentre Paolini con grande efficacia emotiva ripercorreva le vicende degli alpini mandati a immolarsi nelle gelide pianure dell’ex impero sovietico – e gli spettatori seguivano intenti, e anche divertiti alle battute d’alleggerimento che l’attore inserisce- ho avuto una netta sensazione ( che può anche essere, beninteso, sbagliata o smentita).

La sensazione è che per i giovani, in particolare per quelle che non hanno avuto o non hanno in famiglia un nonno reduce, la Seconda guerra mondiale sia importante ma enormemente distante e leggendaria: quasi come le guerre puniche, o la battaglia di Lepanto, o l’impresa dei Mille. Appassionante ma distante. La ricostruzione di Paolini, riflettevo, attestava condizioni e abitudini di vita - in pace e in guerra- che a un ragazzo o a una ragazza del terzo millennio sembrano inconcepibili. I soldati che il Duce aveva mandato ad affiancare ad est il dapprima riluttante alleato tedesco venivano dalle campagne, gli alpini erano valligiani abituati – se possibile le loro donne ancor più di loro- a una esistenza di fatica, di lunghe camminate non per relax ma per le necessità quotidiane, di alimentazione povera, di sentimenti semplici. La vita come sacrificio – quale era illustrata dalla “Domenica del Corriere” – non come una parentesi tra lo jogging, le partite di calcio in televisione, e il gossip sulle veline.

Era duro vivere, ed era facile morire. Si comunicava e i tanti analfabeti dovevano ricorrere all’aiuto di un amico – con lettere toccanti, non esisteva il telefonino e anche il telefono non era alla portata di tutti. L’automobile l’avevano i ricchi o almeno gli agiati, gli altri si arrangiavano con la bicicletta o la corriera o il treno. Tranne che per pochi privilegiati la vita era pazienza. Tra la prima e la Seconda guerra mondiale non c’era stata molta differenza nella vita dell’alpino o del fante o del bersagliere: ove si eccettui il fatto che la prima l’Italia l’ha vinta e la seconda l’ha malamente perduta. Perduta non certo per colpa degli uomini che fecero il loro dovere, ma per insipienza politica e militare di chi comandava, e comandava male. E di chi affrontò un conflitto mondiale senza nulla avere appreso, e nulla dimenticato( negli errori) delle esperienze precedenti.

Ma tra la seconda guerra mondiale e oggi c’è un divario abissale. Per i “bamboccioni”- se vogliamo usare la terminologia di TPS- che guardavano a Marco Paolini nella sua recitazione appassionata, e che concepiscono la guerra in avveniristica e funesta versione nucleare, la storia dell’armata perduta nelle nevi immense somigliava molto, temo, a favola: purtroppo la favola è stata vera. Sofferenza e sangue e prigionia e lutto sedati se non rimossi sotto il peso di quasi sette decenni. Davvero belle le pagine del “Sergente nella neve” davvero straordinario il Paolini. Il programma ha avuto per fortuna una grande audience. Tutti commossi, ma domani ci si trova per l’happy hour.

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