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Il Giornale – Paolini: la Mostra è come l’influenza

“Stai a letto a leggere, ma solo due libri (film) sono belli”

VENEZIA - “Quando sei a letto con la febbre di solito leggi molti libri. Il problema è che al massimo un paio valgono qualcosa. Ecco, la Mostra è come l’influenza”. Marco Paolini, l’anarchico di genio, l’uomo di Vajont, il Dario Fo del duemila, abbassa la voce e cerca d’essere tutt’uno con il muro della sala Volpi per passare inosservato. Oggi al festival dei vuoti a perdere c’è anche lui, piccola ampolla di grappa da conservare nella madia.
È qui per presentare il ritratto di Mario Rigoni Stern, cortometraggio realizzato con Carlo Mazzacurati, una lunga ed emozionante intervista con lo scrittore delle trincee, delle montagne, della memoria. Primi piani sulla barba dell’antico uomo, che commenta: “Abbiamo giocato a carte, bevuto vino e passeggiato nella neve. Ero sospettoso, ma se il risultato è questo adesso sono orgoglioso”. Ricordi di malghe e di larici solitari; niente a che vedere con il fritto misto hollywoodian-provinciale del lido in erezione.
E allora, che c’entra Paolini con il Festival? “Niente, e infatti fra un’ora me ne vado. Sono arrivato stamane e ho fatto un giro per la laguna aspettando l’ora della proiezione. Ma non rifiuto il festival per snobismo, piuttosto perché sono un pesce fuor d’acqua. Qui ci venivo da ragazzo a vedere i film, era come fare una mangiata. Quando invecchi lo stomaco diventa più delicato”.
Paolini dice di amare il cinema più di ogni altra arte, ammette di avere “un rispetto sacrale per la cinepresa” e per questo ha accettato il progetto di Carlo Mazzacurati: intervistare tre grandi della letteratura, Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e Luigi Meneghello. “Tre giorni ciascuno, e in tutto fanno nove. Trascorsi con uomini del loro spessore. E mi pagavano pure, di più non potevo pretendere”.
Il ritratto dello scrittore di “Centomila gavette di ghiaccio” è lieve e toccante, fra ricordi a dieci sottozero e nevicate in alta quota. “Abbiamo realizzato qualcosa che sino a qualche anno fa sarebbe stato patrimonio della Tv. Adesso anche la Tv ama le Polaroid. Il nostro film non potrebbe esserlo, se no sarebbe in concorso”.
Ha rifiutato una parte in un film sul Vajont (“quello è un tema che non devo più affrontare”), ha lavorato marginalmente con Moretti e Lucchetti. L’ambiente del festival lo stimola a ricordare: “La cosa che mi piaceva di più era prendere una cartina e girare per il Lido a caccia di sale e di film nascosti. Qui è come andare in montagna, devi avere la mappa dei sentieri. Qui ho visto un grande film, allora s’intitolava…Vedi non me lo ricordo più. Si sovrappone tutto, che senso ha una roba così?”.
Di film recenti ne ha in testa uno solo:“ “La sottile linea rossa” mi è entrata dentro come un flusso di pensiero. Ma non vedi spesso film così, e a Venezia non ricordo un’emozione recente. Colpa mia, ho cattiva memoria. Oppure colpa del festival, che pur svolgendosi in laguna non ha mai imparato la lezione delle maree”. Qui Paolini si fa criptico, meglio spiegare. Quali maree?“ Non si può sempre andare su, pretendere di lievitare; bisogna sapere anche andare giù. Respirare e non avere solo l’ansia di stupire”.
Alla fine della proiezione, cinque minuti di applausi in una sala da cento persone. In proporzione più che a Kubrick.

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