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IL GIORNALE – Paolini: "Rugby, musica e impegno ecco i miei anni Settanta"

Parlare con Marco Paolini del suo nuovo spettacolo (potrò dire spettacolo?) è uno spettacolo nello spettacolo. Come un prologo in versione privata. Lui racconta e la platea assapora. In platea, io soltanto. Per quanto mi riguarda lo considero un regalo, e pazienza se l'amministratore delegato ne approfitterà per non pagarmi il servizio. Ci sono servizi che non hanno prezzo. Questo, uno dei pochissimi.
Forse è già chiaro, ma devo premettere che l'obiettività del giornalismo in questo caso è orrendamente calpestata. Stavolta più del solito. Confesso in tutta lealtà che sono di parte: nel ramo artisti da palcoscenico, Paolini sta in cima alle preferenze. Sta con i Benigni, con i Bergonzoni, con i Brachetti. Ciascuno a modo suo. Tutti quanti baciati smaccatamente dal genio.
Paolini presto tra noi. Di nuovo. Ancora su La7. Appuntamento al primo febbraio, ovviamente in prima serata, tanto per dimostrare che la qualità non deve necessariamente finire in nicchia, dopo l'una di notte, quando lo zapping propone in alternativa televendite di tappeti e di quarti posteriori. Dopo il successo con il Sergente di Rigoni Stern, questa volta tocca ad Album d'Aprile, rivisitazione di un testo già proposto quindici anni fa. Non provo nemmeno a descrivere in poche parole quel che sarà. Non voglio fare danni con semplificazioni sbalestrate. La parola direttamente alla fonte: «È una storia ambientata tra il '74 e il '75, in un città di provincia del Veneto. Un gruppo di ragazzi, che viene dalla periferia, prova a crescere, tra impegno politico e rugby. Il protagonista si chiama Nicola...».
Non è un'autobiografia, ma l'opera è molto autobiografica. La città è Treviso, dove il bellunese Paolini è cresciuto. E Nicola è sempre il Paolini giovane, classe '56, cioè nel '74 diciottenne. «Ma Nicola fa molte cose che io non ho fatto. Per esempio, giocare a rugby. Uno dei sogni che non ho realizzato, assieme alla chitarra: pensa te, sono passato negli anni in cui la suonavano tutti, rimorchiando a dovere, senza imparare a suonarla. Proprio un mona. Come sportivo praticante, sono un nuotatore. Ma il rugby lo amo da sempre. È il dilettantismo più limpido. È l'unico sport dove qualunque talento non può nulla se non collabora con la squadra. Nel rugby, il cinquanta per cento delle mosse non è diretto alla palla. Si punta anche al corpo dell'avversario. È uno sport equamente nobile, faticoso e figlio di buona donna...». Niente rugby, ma la politica di piazza sì. Come Nicola, Marco Paolini vive gli anni Settanta nell'impegno totale, con tutti i tic e le nevrosi del momento. «Ero rosso. Allora si diceva extraparlamentare, anche se oggi il termine fa ridere. Forse perché gli extraparlamentari di allora sono già ex parlamentari. In ogni caso, avverto tutti: nello spettacolo non ci sarà il compiacimento di una generazione, contro il vuoto e il disimpegno delle generazioni successive. Non cadrò nella sindrome di Giorgio Bocca. Diciamolo: lui ha avuto il sedere di capitare nel momento giusto con personaggi bellissimi, ha fatto il partigiano valoroso, ma non è che per questo tutti gli italiani venuti dopo sono nullità».
Andando avanti nelle spiegazioni, il grande affabulatore racconta come in questo lavoro abbia inteso raccontare la giovinezza. Con molto rispetto e molto pudore: «Un cinquantenne che parla della giovinezza andrebbe proposto col bollino rosso, vietato ai minori di diciotto anni. Non perché dica niente di sconcio: piuttosto perché tratta un tema così delicato. Il problema dei giovani d'oggi siamo noi, che non siamo mai diventati adulti. Invecchiamo, ma non diventiamo adulti. Non vogliamo farci sorpassare da chi viene dopo. Considerando che scientificamente le aspettative di vita sono ferme a 81, accettiamo di essere vecchi solo dopo morti».
Lo ascolto e ancora di più mi colpisce la contraddizione che l'accompagna: artista terragno e strutturalmente popolare, benché raffinatissimo e sottile, Paolini viene considerato ancora fenomeno amatoriale. Per pochi. Quasi elitario. Glielo faccio notare. «In effetti è un po' così. Però me lo dica sinceramente: in giro mi considerano antipatico come Nanni Moretti?». Questo no, posso garantirlo. «Sarà che non ho studiato da intellettuale. Non ho la stoffa. In Italia l'intellettuale è inteso come tuttologo. Uno Sgarbi. Io invece ho i miei limiti. Dopo Vajont, mi chiamavano i giornali per dire la mia su tutti i disastri. Ricordo il periodo di Sarno. E io che rispondevo sinceramente così: magari ci vado, osservo, poi vi so dire. No, serve per stasera, mi dicevano. Così non se ne faceva niente. L'ho detto, non ho il fisico dell'intellettuale moderno. D'altro canto, si fanno delle scelte: io preferisco essere utile a qualche insegnante di scuola media, qui dalle mie parti, dove si lavora duro all'integrazione, piuttosto che ai famosi giornalisti della Capitale».
Se non fosse che anche nel termine «antipersonaggio» si annida ormai il tarlo della posa snob, Paolini lo sarebbe in modo sublime. Viaggia in seconda classe, va a fare la spesa, sta in casa con la compagna («da dieci anni, senza figli: un senso di colpa devastante»). Chiede solo una cortesia: «Non mi fate però passare come il buon selvaggio. Alla Mauro Corona, per capirci. Io sono un borghese integrato. Quanto al mio mestiere, ci ho messo anni a scrivere sulla carta d'identità “attore”: sono uno di provincia, mi sembrava troppo presuntuoso. Prima scrivevo regista, mi sembrava un po' più contenuto. In realtà, adesso mi piacerebbe essere considerato un mediatore culturale, se la definizione avesse ancora un senso».
Il borghese Paolini, quando capita, guarda la televisione. Ultimamente, Benigni che legge Dante: «Mi piace, molto più di quando fa il regista». Ecco, Paolini: chiudiamo con la polemica d'annata, se cioè sia giusto divulgare la cultura spettacolarizzando come fa Benigni, o se vada tenuta sottochiave, per i buongustai, come fa Sermonti: «Guardi, non facciamola lunga. A me piacciono sia Benigni che Sermonti, quando leggono Dante. Non sono costretto a scegliere. Come quando ero giovane, con la Maria e la Norma...».

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