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Il Giorno – Il Milione di Paolini viaggio immobile nell’assurda Venezia

MILANO - «II Milione»», Marco Polo e Marco Paolini: un titolo per due veneziani, avventuriero dell'orbe terracqueo il primo; sedentario scopritore di una Venezia galleggiante sull’acqua e nel tempo il secondo. Il quaderno veneziano che il Marco contemporaneo, con estro da contastorie, propone fino al 16 del mese al Teatro Studio beneficia della popolarità venutagli dal recente passaggio in TV nel «Racconto del Vajont», e dalla voglia di riscatto del Piccolo, che vuole lasciarsi alle spalle la crisi con una stagione aperta ai contributi esterni.

Folto il pubblico e calorose le accoglienze alla fine del lungo (anche troppo) monologo in due parti comprendente secondo lo schema dell'autore - un prologo e un epilogo, otto movimenti dall’andamento narrativo, nove «disegni» sul presente e il passato della città e un «proclama» futurista, con l’invettiva di Marinetti alla Venezia «cloaca massima dello snobismo col suo odiato chiaro di luna da camera ammobiliata e le gondole come poltrone a dondolo per cretini».

Ma il tono della serata non è questo, sarcastico e dissacrante; veneziano di terraferma, il Marco del Nuovo Milione, che sarei tentato di definire un Ruzante di Porto Marghera, racconta l'epopea maccheronica di Venezia «unica città del mondo dove i leoni volano e i piccioni, anchilosati, zoppicano in piazza San Marco», con i colori di una affettuosa ironia. I suoi strali non sono intinti nel curaro e Paolini li riserva all'esercito dei turisti (i giapponesi che fotografano giapponesi; i russi come tartari affamati di spleen lagunare) o magari beghine che sciamano sui vaporetti da una chiesa all’altra biascicando rosari e pettegolezzi. Ma del veneziano tipo egli ci offre l’immagine saggia e faceta di un sopravvissuto ai turchi e ai genovesi, alle acque alte alle idrovore, alle motovedette della Finanza. Napoleone guardava il mondo dall'alto delle piramidi, il veneziano di Paolini lo guarda dai dorsi di cammello dei suoi 364 ponti.

La scena povera di Graziano Pompili consiste in un fondale con un’antica mappa di Venezia e in un plastico di San Marco. L’attore, vestito da barcaiolo, anima a tratti giochi di ombre cinesi. In buca tre bravi orchestrali (Stefano Olivan, Francesco Corona e Lorenzo Pignattari) eseguono temi vivaldiani e barcarole, cui s'aggiungono i contributi registrati dei Pitura Freska. Paolini interviene

sul testo a soggetto, ricostruisce con onomatopee i rumori dei vaporetti e delle barche a motore (i mototopi nel gergo lagunare) e accompagna i racconti con una mimica e una gestualità di ottima comunicazione. Nel testo, cui ha contribuito Francesco Niccolini, affiorano citazioni da Marco Polo naturalmente, da Melville, Shiovskij, Magris, Zorzi, Bettin.

L intreccio fra motivi della sterminata letteratura su Venezia e spunti da cabaret è un altra caratteristica di questa maliziosa epopea di un mondo d'acqua e di terra che trae i suoi splendori da un'eterna, esibita agonia. La reverie è quella delle Città Invisibili di Calvino, la capacità di osservare è quella del Tati di «Giorno di festa» l'humour oscilla fra l'empatia comica di Zavattini e l'autoironia di Woody Allen. Il risultato e un umorismo surreale come il «viaggio immobile» di colui che, partito dalle avventure del “Milione” si ritrova al punto di partenza, a remare su una gondola che gira su se stessa, prigioniero di un miraggio chiamato Venezia.

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