CASTIGLIONCELLO (Livorno) — Stavolta Marco Paolini non parla di eventi clamorosi, eclatanti, come il Vajont, la tragedia di Ustica, ricostruiti e raccontati da lui, dalla sua arte di narratore-affabulatore, nelle sue precedenti “orazioni civili”. Paolini ha capito, forse, che è questo versante 'serio', impegnato del suo lavoro teatrale quello in cui riesce a dare il meglio, e ora, in “Storie di plastica”, scritto in collaborazione con Francesco Niccolini, parla di una tragedia più grave di quella Ustica, anche se è avvenuta in silenzio, e viene dissotterata ora solo grazie all'impegno di un operaio, Gabriele Bortolozzo.
In queste due ore e un quarto di appassionante assolo, ancora a livello, secondo Paolini, di “prove di spettacolo”, ascoltato e visto al Castello Pasquini di Castiglioncello (in realtà, “Storie di plastica” ci sembra già ben rifinito, anche ci sono da fare delle correzioni), si ricostruisce la vicenda sconosciuta della morte di circa 150 operai del petrolchimico di Porto Marghera. Li ha uccisi la lavorazione del cvm-pvc, che ha provocato loro una rara forma di tumore epatico. Insufficienti erano le condizioni di sicurezza e fortissimo l'inquinamento dell'aria negli stessi stabilimenti chimici della città industriale alle porte di Venezia, creazione del conte Volpi, ma suggerita anche dalla febbre modernizzatrice dei futuristi.
Gabriele Bortolozzo ha lavorato per anni, tra ricerche, incontri con medici e con le vedove dei colleghi morti e il giudice Felice Casson ha poi aperto un'inchiesta. Dal 1998, nell'aula-bunker di Mestre, si sta tenendo un processo per l'accusa di strage e disastro ambientale che vede alla sbarra — si può dire — tutto il mondo della chimica italiana, e anche di parte della finanza… Perché i guai di Porto Marghera sono, come dire, la faccia più sporca dell'industria chimica nel nostro paese, un'avventura accidentata e spesso piratesca (Paolini va più in là, parlando di “differenza sottile che separa associazioni criminali e società industriali”). Un'avventura di cui si ripercorrono in “Storie di plastica” tutte le tappe: che hanno come protagonisti, nel segno di scommesse sempre azzardate, discutibili, nomi come Cefis, Schimberni, Gardini, Cuccia, Necci, e anche Fanfani, Craxi, Forlani.
Paolini (nella foto) sta sempre giù, in platea, davanti al pubblico, per stabilire forse nel suo raccontare un rapporto più colloquiale, diretto. Pacato e insieme magnetico, sostenuto da una indignazione 'civile' nascosta eppure bene avvertibile, l'attore è, in “Storie di plastica”, ai limiti estremi del teatro. Ci sono solo la spiegazione, la semplice narrazione, una tensione che — in ogni caso — sorregge tutto e che rende questa forma così particolare di spettacolo pienamente persuasiva.
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