VERONA - Quella che sta costruendo in questi anni Marco Paolini, è una particolare figura d'attore, che riprende elementi senza dubbio antichi per cercare di rispondere a quella che oggi può essere la necessità (o una delle necessità) del teatro.
Una delle funzioni centrali di questa figura d'attore è ovviamente quella primordiale del narratore, cui fa riferimento (oltre agli "Album") anche l'inizio del nuovo lavoro di Paolini, il "Bestiario italiano" visto negli scorsi giorni al teatro romano di Verona per il festival shakespeariano. La serata la inizia raccontando infatti dei "cani del gas", quei cani che si trovano negli sperduti distributori di gas per autoveicoli portavoce di una misteriosa eppure palpabile saggezza, di una misura del mondo che noi umani sembriamo aver perduto.
La narrazione è capacità di dare senso a un mondo frammentato, e anche l'occasione di trasmettere e scambiare esperienze. Qui entra in gioco una seconda funzione attorale, quella della testimonianza. Ma che cosa testimonia Paolini? In primo luogo, le trasformazioni della sua terra, il Veneto, in questi decenni. È la rivoluzione culturale e antropologica che ha portato in pochi anni dalla civiltà agricola-contadina a quella industriale (testimoniata nel "Racconto del Vajont") e poi da quella industriale a quella post-industriale, nell'era della globalizzazione e dell'imprenditoria diffusa (testimoniata soprattutto nei "Bestiari"). Quella del testimone è una funzione che si rifà senza dubbio al modello di Pasolini, alla sua capacità di cogliere le trasformazioni profonde del tessuto umano. Nel caso di Paolini prevede una attenta "ricerca sul campo" di stampo storico e sociologico, un'immersione nel territorio e nelle sue varie articolazioni sociali, una sorta di inchiesta dalla quale estrarre i materiali, i paesaggi, le situazioni, i personaggi da distillare in racconto.
In questa prospettiva, l'attore si assume il compito di rendere visibili movimenti e trasformazioni che altrimenti resterebbero muti, inespressi (o magari nascosti dietro un'asettica congerie di statistiche), per renderli oggetto di discorso, di discussione. È un'opzione di teatro "civile", questa: uno spazio comune, pubblico, dove una comunità possa rispecchiare se stessa e le proprie contraddizioni, quelle generate inevitabilmente dal cambiamento. Nel caso di una società frammentata e implosa, come quella italiana di questi anni, fatta di aspirazioni, timori e rancori inespressi, un teatro di questo tipo offre uno spazio politico - o almeno un suo surrogato.
La testimonianza può comprendere una cartolina del paesaggio veneto, passato dai campi di polenta ai capannoni dei distretti artigianali e industriali, ma anche una perorazione a favore del federalismo. Perché non si tratta mai, è ovvio, di una semplice registrazione della realtà, di un elogio del presente o di un qualche "progresso". Il giudizio è sempre netto e preciso: sull'attualità politica ma anche su una visione dell'uomo che affonda le sue radici nel magistero di poeti e scrittori. I "Bestiari" sono infatti costruiti intorno a una serie di brani, soprattutto di poeti. In questo work in progress l'antologia si apre verso l'italiano, e verso il possibile punto di partenza di una storia dell'Italia moderna, la Grande Guerra. L'attore diventa così custode della memoria, e custode della lingua. Il punto di riferimento, in questo caso, è Luigi Meneghello, autore di quei "frammenti d'Amleto" tradotti in dialetto alto-vicentino che concludono lo spettacolo.
È proprio su una difficile scommessa che si gioca lo sviluppo, nei prossimi mesi, di questo "Bestiario italiano": uscire dall'attenzione localistica, con i suoi rischi di involuzione, di chiusura, misurandosi con un orizzonte più ampio, sia dal punto di vista geografico che culturale. È su questa scommessa, su questo intreccio di orizzonti, che si gioca la costruzione di una identità: che da un lato è personale, biografica, e dall'altro collettiva, di popolo.
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