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Il Manifesto – Pane, burro e sale, il sapore dell’adolescenza

Una generazione venuta prima della Nutella, che sembrava già troppo rampante. E che si trovò ad attraversare il terrorismo.

Come raccontare una generazione e se stessi, attraverso uno spettacolo serial. Marco Paolini in scena a Roma con "Liberi tutti"

Forse non ci abbiamo fatto caso, ma oggi in Italia lavora una generazione di autori-attori più o meno quarantenni che sta raggiungendo una notevole maturità espressiva, fatta di padronanza dei mezzi tecnici e di complessi mondi interiori. Cresciuti lungo imprevedibili percorsi di autoformazione, ottimi attori quando lavorano in gruppo, in apparenza si muovono in direzioni molto diverse. Possono essere i sogni all'incontrario di Paolo Rossi; o le rivisitazioni letterarie di Marco Baliani; o le acrobazie surreali di Alessandro Bergonzoni. Forse gli assoli impeccabili di Sandro Lombardi. Oppure le invenzioni poetiche laceranti di Danio Manfredini. O ancora gli "Album" di Marco Paolini, la "teatronovella" in cui il piccolo Nicola (classe 1956, come il suo creatore e alter ego) racconta il suo "romanzo di formazione". Finora siamo alla terza puntata; nella prima, "Adriatico", si raccontava della prima esperienza in colonia; nella seconda, "Tiri in porta", coprotagonista era un campo da calcio dove Nicola e i suoi compagni consumavano pomeriggi ed emozioni; nella terza, dal titolo esplicito "Liberi tutti" ci porta negli imbarazzi fragili e selvaggi dell'adolescenza. Segnata per di più da un'educazione cattolica, con i suoi preti più o meno "aperti", il primo Brecht, ma anche il rock, le prime emozioni beat, e un'educazione sessuale ruspante costruita su "Satanik" e "Jakula".

"Gli 'Album' - spiega Marco Paolini - sono nati senza un progetto, con il primo spettacolo, "Adriatico", nel 1987. Io leggevo i racconti di Goscinny dedicati al Petit Nicholas e li trovavo molto divertenti. Ho pensato che sarebbe stato bello farne uno spettacolo, e ne ho parlato con Gabriele Vacis. Allora abbiamo tentato una scommessa: affidare il racconto ad un unico narratore".

- L'enfasi sulla narrazione è arrivata dopo. All'epoca in questa direzione lavorava solo Marco Baliani, credo.

"Non avevamo modelli. L'unico era Dario Fo, ed era un modello dal quale dovevamo allontanarci. Dovevamo trovare una chiave plausibile per raccontare l'infanzia senza bambineggiare, mantenendo però la vivezza del racconto, il suo aspetto umoristico…".

- In questo mini-Heimat veneto è confluita anche molta autobiografia.

"Non solo mia. Faccio un esempio: nel testo di Goscinny si accennava a una merendina. Allora noi abbiamo fatto una lista ragionata di tutte quelle che erano le merendine dell'epoca: quelli che avevano pane-burro-marmellata, pane-burro-sale, pane-burro-zucchero, pane-burro-prosciutto, pane-burro-mortadella, quelli che avevano il Buondì Motta, il Cioccorì, il Carrarmato Perugina, il Dofocrem, il Belpaese, il Formaggino Mio, il Bebè Galbani, i Ringo, i Togo, i Pavesini, il Brioss Ferrero all'albicocca, il gelato finto…".

- E la Fiesta e la Nutella?

"La Fiesta nasceva proprio allora. Ma per me Fiesta e Nutella sono già prodotti rampanti, sono cose moderne. Infatti la Nutella, per noi, non è una di quelle cose che butti giù come i biscottini al Plasmon: mia madre non si fidava. La Nutella è una scelta adulta. È per questo che Nanni Moretti riesce a innamorarsene".

- Gli "Album" raccontano in prima persona dieci anni di storia e di costume italiani, dalla parte infantile. Come sei approdato agli adulti?

"'Adriatico' era destinato ai ragazzi, però pensato con un rigore e una serie di attenzioni al mondo degli adulti. Portandolo in giro, mi sono accorto che da parte degli adulti c'era una reazione, oltre che di divertimento, di emozione, di commozione, legato anche al riconoscersi e al rispecchiarsi in certe cose. Naturalmente in questi Amarcord generazionali ci sono dei rischi di speculazione, anche se non ho mai voluto fare un discorso di nostalgia. Però è interessante che un lavoro sui ricordi esatti faccia scattare meccanismi come questi".

- Nel primo spettacolo hai messo a punto un metodo di lavoro basato sull'incontro dei ricordi dell'autore-attore con quelli dello spettatore…

"Dopo 'Adriatico' ci siamo innamorati di Meneghello e abbiamo fatto "Libera nos". Ma io non volevo far morire Nicola e i suoi amici. Così ho fatto "Tiri in porta", con tutti i rischi che i sequel comportano, e trovandomi oltretutto a essere autore, regista e attore. Volevo parlare del luogo in cui vivevo e giocavo, e avvicinarmi alla mia infanzia. "Adriatico" era un'isola felice; progressivamente mi sono avvicinato a materie un po' più rischiose: in "Tiri in porta", per esempio, ci ho messo dentro un mongoloide e un morto, legati a episodi della mia infanzia".

- Così è nato questo one-man-serial…

"Ho visto che esisteva lo spazio per una forma teatrale di questo genere: l'unica limitazione è la capacità di elaborare nuove storie, mentre il meccanismo di ricerca degli elementi precisi della memoria si è ulteriormente sistematizzato e approfondito".

Con "Tiri in porta" siamo già ben dentro gli anni 70. Alla fine di questa puntata, si avverte che c'è nell'aria qualcosa di nuovo, di eccitante e forse pericoloso, che rischia di spegnere la leggerezza e l'ironia di quell'infanzia così ingenua e delicata. Il seguito alla prossima puntata. "Aprile", che debutterà (appunto) nel prossimo aprile: Marco Paolini racconterà la stagione delle rivolte giovanili, del '77 e di quel buco nero che sarà il terrorismo.

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