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Il Manifesto (Visioni) – Ustica, la sfida della memoria

Intervista a Davide Ferrario che firma la regia cinematografica di «I-Tigi a Gibellina», la tragedia del Dc9 raccontata da Marco Paolini

Che Davide Ferrario e Marco Paolini trovassero prima o poi l'occasione per fare qualcosa insieme non è poi così strano. Perché entrambi lavorano su un'idea di attualità del linguaggio che è impegno e ragionamento, che all'urlo da salotto tv risponde con la chiarezza tranquilla, e l'emozione delle loro storie sta nel profondo di verità spesso scomode se dette nei fatti. Entrambi insomma usano il cinema (Ferrario) o il teatro (Paolini) come luoghi di necessità, vuoi che sia il racconto del Vajont o del petrolchimico a Marghera (Paolini), vuoi (Ferrario) che siano la Resistenza, Genova-G8 - Le strade di Genova , documento di denuncia tra le altre cose della presenza di agenti travestiti da black block nella manifestazione - o ancora corpi di immaginario sfuggenti e inclassificabili perché troppo avanzati (dunque da censurare) come era Guardami per il quale Ferrario (e la protagonista Patrizia Cavallotti) ha pagato un prezzo altissimo di silenzio professionale. Sceneggiature respinte, progetti bloccati fino a oggi, tra poco infatti dovrebbe iniziare il suo film «americano» con la Miramax, ancora senza titolo, che parla di calcio e disoccupati palermitani tra Italia e Stati uniti. Però questa è un'altra storia. L'incontro di cui si diceva invece, quello con Marco Paolini, ha prodotto I-Tigi a Gibellina che sarà al prossimo festival di Torino e viene proposto su Telepiù bianco oggi (15.20), domani (12.10) e ancora il 2 e il 3.

All'origine c'è Ustica, ballata in forma di teatro, ovvero un'altro frammento di memoria italiana «rimossa» che Paolini ha voluto recuperare, analizzare, mettere insieme nelle evidenze prima ancora che nelle interpretazioni. Ma quella regia è parecchio diversa, lo stesso Paolini ha cambiato molte cose - per esempio tagliando le parti cantate - poi siamo a Gibellina, sul Cretto di Burri che diventa elemento narrativo nel legame, come scrive l'attore-regista, tra l'antica pianta della città e altre storie italiane. «Visto dall'alto il Cretto è simile al dedalo di bugie nel quale i giudici si sono dovuti orientare per ritrovare il filo delle indagini» si legge nelle note di regia. E soprattutto l'ironia e la lucidità nell'esplorazione di quel «segreto» molto italiano si moltiplicano nel doppio sguardo di Paolini e Ferrario, nell'intreccio di sensibilità lucide e poco conciliate, nella loro inchiesta pacata che punta a minare sicurezze o indifferenza. Ecco allora sul Cretto bianco Paolini dirci del Dc9 Itavia che si era alzato a 8 km per finirne quattro sotto al mare. Di quel volo interrotto brutalmente senza alcuna causa certa e che lui quel fatto preferisce chiamarlo I-Tigi usando l'alfabeto fonetico che a «nominare le cose con la geografia ci si confonde». Perché Ustica e non Ponza? Ci parla poi dell'insepoltura - «un problema di sabbia o di giustizia?» - e dell'indignazione che «in Italia dura meno dell'orgasmo»... Ferrario lo segue, lo anticipa, scrive in immagine fisicità del corpo e delle parole, e infine tutto quanto non è cinema nè teatro, non ha nulla a che vedere con la «ripresa», è uno spazio ancora diverso che ti avvince fino alla commozione e alla rabbia. «Quando Marco Paolini mi ha proposto di lavorare con lui ero molto preoccupato - racconta Ferrario da Torino, la città in cui vive - É un grande attore di impegno civile, la sua forza sta nell'essere radicalmente diretto. Se avessi inserito qualche elemento artistico o intellettuale avrei snaturato il suo lavoro».

E invece?

Ho cominciato a scrivere una sceneggiatura, specie per la parte girata di giorno, utilizzando la tecnica del cinema. Marco non doveva dire mai più di due o tre battute di fila, il lavoro di «spezzetamento» è molto naturale per me, per lui che in scena si muove e parla con continuità lo era un po' meno. Ogni tanto faceva fatica ma tra noi c'è stata da subito grande fiducia. É stato anche molto importante il luogo, il Cretto di Burri, è un labirinto di luce e di cielo, ha una dimensione cinematografica molto forte. Inoltre per la parte più di performance, quella col pubblico, non ho voluto utilizzare una regia mobile montando in contemporanea. Ho preso tutto il materiale che avevo e l'ho montato dopo, se lo fai live sei costretto a stare dietro all'attore, a distanza puoi lavorarci con maggiore chiarezza.

Ma come vi siete incontrati?

In occasione di «Appunti partigiani», la manifestazione a Milano del 25 aprile dove avevo curato la tessitura di vari documentari sulla Resistenza. Conoscevo già i suoi spettacoli, ci siamo visti un po' e lui mi ha proposto di fare I-Tigi. Cercava qualcuno, «un 'autore cinematografico» ha detto, che rispetto al suo lavoro trovasse una dimensione non di teatro filmato. Mi sento molto vicino al modo in cui Marco si confronta con le cose, mi ritrovo nell'ironia, nel ragionamento che contrappone agli strepiti tanto diffusi oggi. Paolini cerca di approfondire, è un po' l'atteggiamento che ho cercato di avere ad esempio rispetto ai fatti di Genova, dove tra l'altro ero andato senza intenzione di girare. Per caso un amico mi ha chiesto di riprendergli la manifestazione del sabato, lui doveva partire. Così è nato Le strade di Genova con cui ho provato a fare una controinformazione che fosse documentata il più possibile.

Dicevi del Cretto, c'è un legame dichiarato tra la scelta del luogo e la materia trattata?

Direi che per me è un cortocircuito non logico tra disastri e tragedie italiane. La storia di Gibellina città dopo il terremoto ha avuto esiti diversi, la sua ricostruzione segue un progetto molto particolare. Il Cretto vale nella sua enormità, è un volo artistico ma ti porta a pensare che là sotto ci sono le rovine del paese distrutto dal terremoto.

In che modo vi siete confrontati sull'interpretazione dei fatti?

Approvo totalmente il metodo di Marco, che analizza gli eventi, guarda le cose come sono, un atteggiamento che in Italia paga poco visto che si preferisce viaggiare sullo scoop, sugli scandali. Si abbracciano delle convinzioni per fede più che per ragionamento e a volte penso che alla politica interessi poco la ricostruzione della verità. Si preferisce avere un colpevole che sia quello giusto non quello vero.

Parliamo del tuo cinema. Dopo «Guardami» sei rimasto fermo...

Spesso si dice che bisogna fare film diversi ma con l'esperienza di Guardami ho sentito un forte senso di isolamento. Era come se scontassi una dichiarazione di guerra a un certo modo di fare cinema, sono diventato uno poco controllabile. Avevo ad esempio una sceneggiatura, Rosso fuoco scritta insieme a Cesare Battisti sulla lotta armata degli anni Settanta che è stata spazzata via dai tavoli delle varie commissioni... Credo che il vero regime sia nelle coscienze, in quella forma di autocensura che scatta prima ancora di rivolgersi ai ministeri o ai grossi produttori ... Poi c'è il problema del pubblico, cosa vuole? L'impressione che ho è che la sola cosa che oggi funziona è la commedia dei sentimenti raccontati in un certo modo, la coppia trentenne, i sogni borghesi, la scelta di fare o no dei figli... E forse è la cosa che mi fa paura più di tutte.

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