L’artista ha condotto per mano il pubblico del Verdi nei meandri di una città che è anche metafora della vita.
Affascinante monologo di marco Paolini, moderno Virgilio del palco.
Più che una storia un labirinto, il dolce e abbagliante sogno di una città sull’acqua, come solo i bambini possono immaginare, pietre sorrette da alberi, che solo uomini avventurosi possono erigere e appassionati viaggiatori raccontare. E che è metà dell’anima di Marco Paolini, il sogno, e Venezia la sua musa. In “Appunti foresti - dal Milione quaderno veneziano”, presentatola Verdi quale secondo spettacolo in abbonamento della stagione di prosa, ci sono un castello a pelo di laguna e secoli di battaglie contro le onde e il resto del mondo, per non cedere, sprofondare, metafora della vita di galleggiare per sopravvivere. Che è ancora battaglia, nelle immagini dei tiggì di una città con i braccioli. La Venezia che non conosci abbastanza perché troppo vicina, a portata di mano. Il centro storico pedonale più grande del mondo e più agognato dal turismo mondiale. Un futuro minaccioso che non può vivere di ricordi. Nello spettacolo che Paolini riprende dopo qualche anno, il bisogno ancora forte di farci capire come Venezia sia un valore irrinunciabile, un groviglio di razze, profumi, ingegno, arte e astuzie, un esempio impossibile da seguire quindi unico e inestimabile. Ma anche viva, se non vitale, brulicante di passi che la consumano, ma…ma quanti di noi ci hanno mai dormito? Ritardi al massimo fino all’ultimo treno e ti perdi il meglio: la notte, il silenzio, la musica dell’acqua, l’alba. Una notte e ne capiresti l’anima. Ti pare che l’attore stavolta non denunci invece è solo più sottile. Non elenca misfatti ma lancia un monito-appello, pesante come un macigno in quella bianca pietra d’Istria: non lasciarla morire. E ti pare poco? Rischiano i nostri nipoti di accontentarsi di quella allucinante accozzaglia di ferro e plastica che a Las Vegas si chiama Venecian e si eleva per sessanta piani verso il cielo, nell’assurda e arsa aridità di un deserto americano. È sempre un piacevole filtro d’amore di commedia dell’arte e dialetto e musica e profumi e immagini, un altro Milione di immagini, quello che Paolini ti propone e tu lo bevi d’un fiato e segui questo moderno Virgilio del palco, solo e vorace cantastorie che non a caso porta il nome di un altro veneto che ha nel cognome i confini del mondo, il destino di viaggiare. E noi dietro a scoprire a distanza di secoli che il punto di partenza è interessante quanto l’arrivo e la migliore eredità di questi due viaggiatori è la sintesi di una filosofia, Venezia è anche l’altra parte del mondo, Marco Polo il primo tour operator della storia e Paolini la pro loco di questa foresta a testa in giù, che canta serenate alle otto di mattina e solo per orgoglio ancora non ti supplica “non lasciarmi morire”.
Molto apprezzato da un pubblico tanto eterogeneo quanto pronto allo stupore, alla risata e ai numerosi applausi, Paolini ha affrontato un teatro Verdi tutto esaurito con la scioltezza di un racconto da salotto, la pipa in bocca, il piacere della conferma e quella sottile vena di comodità che la sicurezza del mestiere e un testo pensato e collaudato ti permette. E come tra amici si fa, ti ricorda che durante l’intervallo, tra un caffè e una chiacchierata, puoi fermarti al banchetto di Emergency nel foyer e lì sono altre battaglie.
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