Pare quasi brutto fare lodi sperticate a Marco Paolini, tutte le volte che va in tv a fare teatro. Ma quando ci vuole ci vuole. Venerdì sera con "Album d' Aprile" ha raccontato insieme il rugby, un mondo e una generazione. Divertente, commovente e assai preciso. Fra il pubblico c'erano gruppi di omoni con le maglie delle squadre, che a certe storie si davano di gomito, ridevamo, mollavano pappine devastanti e affettuose a quello davanti, dove la testa si innesta nel colletto (in certi giocatori il collo è optional). Si riconoscevano. Ci riconoscevamo. Come si impara a placcare? Cosa succede dentro le mischie chiuse? (questo è un segreto che speravamo nessuno svelasse, in realtà). Cosa pensano i ciccioni fangosi della mischia di certi tre quarti ala, eleganti come Nureyev, immacolati in mezzo a un mare di fango? Come va a finire il terzo tempo? Cosa può spingere uno sano di mente a fermarsi le orecchie con lo scotch da pacchi, e riempirsi la faccia di vaselina? Paolini raccontava e noi eravamo là, trasportati sui campacci fangosi delle periferie. Il rugby in queste cose è un po' come il ciclismo. Non basta un replay, ci vuole qualcuno che lo sappia raccontare. Come Paolini. Lui lo ha detto, che non ha mai giocato. Non importa maestro, neppure Dino Buzzati ha mai corso il Giro d'Italia. Eppure io ho capito la storia di Coppi e Bartali solo quando l'ho letta raccontata da lui.
Questo sito utilizza cookie tecnici, analitici e di terze parti per le sue funzionalità. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie clicca qui Cookie Policy. Cliccando "Ok" su questo banner o proseguendo nella navigazione del sito acconsenti all'uso dei cookie.
Scegli a quali categorie di cookie dare il consenso. Clicca su "Salva impostazioni cookie" per confermare la tua scelta.
Scegli a quali categorie di cookie dare il consenso. Clicca su "Salva impostazioni cookie" per confermare la tua scelta.
Questo contenuto è bloccato. Per visualizzarlo devi accettare i cookie '%CC%'.