I veleni di Porto Marghera: nascita e fine di un’industria disgraziata
TEATRO L’attore veneto ha presentato a Udine «Parlamento chimico» (domani sarà a Monfalcone)
UDINE - Marco Paolini punta in alto. Molto in alto. Là dove forse il teatro non può arrivare. Ci può arrivare forse la coscienza della gente, se ha a disposizione fatti e informazioni. In un Paese sano, dovrebbe essere un compito di giornali, radio, soprattutto televisioni. Oggi lo svolge il teatro, quel compito. Perlomeno un teatro speciale, com'è quello di Paolini, sempre meno attore, sempre più esploratore di un'Italia nera, cronista di pagine oscure, storico di brutte storie, di una repubblica malata.
Dopo la diga del Vajont, dopo l'aereo di Ustica, Paolini racconta ora i veleni di Marghera. Il suo nuovo lavoro si intitola «Parlamento chimico»: un testo a cui ha messo mano, insieme a Francesco Niccolini, almeno da 4 anni, uno spettacolo che ha cominciato a presentare in pubblico da pochi mesi (domenica era Udine, per la rassegna Akropolis; domani sarà a Monfalcone). «Parlamento chimico», storie di plastica, storia della vittoria dell'industria chimica, storia di morti di lavoro, storia della finanza nostrana, storia del nostro parlamento.
Storie non facili. Né da capire né da raccontare. Storie in cui non esiste una diga maledetta, un paese raso a terra da un'ondata, un aereo che cade, bucato da un missile. «Fossi sc'iopada la fabrica», tutto sarebbe più chiaro, più dimostrabile, dice aprendo ogni tanto la valvola del dialetto. «Parlamento chimico» parla invece di un disastro continuato, di un avvelenamento lento, di soglie di sicurezza e di consigli di amministrazione, di scienziati, di finanzieri, di fondi neri. Di cartelle cliniche, carte processuali, atti parlamentari. Storie faticose. La storia critica di un modello di sviluppo.
Paolini sa bene di cosa parla. Ha vissuto la lunga stagione che ha trasformato l'Italia contadina in una delle otto matrone mondiali. Ha osservato le trasformazioni del Veneto, l'esperimento sociale e produttivo di cui non conosciamo ancora il risultato. Quando era ragazzo, dalla sua Belluno, da cui ogni tanto dice che «si vede il mare», ha visto crescere in laguna il più grande polo chimico europeo, il nuovo polmone industriale, il pianeta plastico. «Ti sa miga cos'che xè Maghera» ripete citando una vecchia canzone di Alberto D'Amico. Marghera è il sogno dei Futuristi che diventa realtà. Marghera è il porto dove non senti il mare. Marghera sono fanghi di bauxite, celle di mercurio, tumori, malattie invalidanti. Marghera è soda. Cloruro di vinile. Polimeri. Marghera è progresso, plastica italiana. Moplen.
Per raccontare la più grande e disgraziata avventura industriale d'Italia, Paolini dovrebbe improvvisarsi chimico, sociologo, medico del lavoro, consulente di economia e finanza. Ma il teatro, per sua natura, è anche un luogo di processi, e Paolini fa quello che sa fare meglio, la pubblica accusa. A mani nude raccoglie i fatti, li mette in fila, li espone. Da quelle storie di morti avvelenati e tumori invisibili, potrebbe tirare fuori una Spoon River: «ma voi ve ne andreste via pieni di emozioni, e basta». Perciò «Parlamento chimico» non è Vajont né Ustica. Non c'è l'orologio che scandisce i tempi della frana. Non c'è la lavagna con la rotta di volo. Ci sono solo una scrivania e una lampada. E un tubo di Pvc arancione, oggetto e simbolo. Tutto si concentra nella lunga requisitoria, che sfiora le tre ore, intervallo compreso. Una rincorsa senza prendere mai fiato. Documentata. Appassionata. Quasi mai emotiva. Ancora in crescita, se come tutti gli ultimi spettacoli di Paolini, si assesterà con le repliche attorno a dei punti focali. Intanto scorrono i fatti e i nomi. Da Marinetti a Solvay, dal «caparossolo» della laguna all'angiosarcoma epatico, da Enrico Mattei a Eugenio Cefis, dalla Dc di Amintore Fanfani alla vergogne della Milano da bere. Con il sale, ogni tanto, di una battuta in veneto, di un'occhiata al presente. Sapendo bene come sia difficile fare il processo non a un'azienda chimica, non a dei finanzieri spregiudicati, non a una classe politica, ma a un modello di sviluppo. E come sia importante proprio oggi, farlo.
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