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IL PICCOLO – IL SERGENTE

Possono cambiare i fronti, le divise, le armi. Può cambiare la temperatura o il tempo. Ma la guerra resta guerra: sono uomini che ammazzano altri uomini. La guerra è umana. Troppo. Questo concetto semplice e perfino evidente viene ogni giorno smentito dall'informazione di guerra. I numeri, le immagini, i media, la fanno assomigliare a un'altra cosa. La disumanizzano.

"Il sergente" è lo spettacolo che Marco Paolini ha preparato incamminandosi sulle parole e le pagine di uno dei libri importanti del novecento italiano. Tre decenni fa lo si leggeva alle scuole medie. Oggi molto di meno. Rigoni Stern ha pubblicato "Il sergente della neve" nel 1953, Ma li aveva registrati subito gli avvenimenti che il suo diario racconta: la spedizione di Russia, le trincee di neve dell'Armata Italiana, la ritirata, la sacca. Le centomila gavette di ghiaccio.

Rievocando a teatro una guerra di sessantanni fa, Paolini restituisce umanità alla guerra. La paura, la fame, il gelo sotto la pelle, il desiderio di casa (sergentmagìur, quando tornèmo a bàita domandano e ridomandano le gavette vuote) tornano a collocarsi là, nel corpo dell'ex sergente maggiore Rigoni, divisione Tridentina, matricola 15454, e nella percezione di spettatori. E mentre Paolini indugia sulla minestra ridotta a pastone di giaccio, le divise di neve come carta vetrata, le pallottole che miagolano sfiorando gli elmetti, la platea riscaldata e comoda del Rossetti percepisce che la guerra - così lontana e esterna, in Iraq o Cecenia - un'esperienza che viene vissuta prima di tutto dentro.

Paolini, l'attore di Belluno, nella Russia raccontata dallo scrittore di Asiago ha voluto andarci. Sessant'anni dopo. Lungo quel Don, in quelle isbe, dentro le stesse tane. A pestare anche lui con scarpe pesanti la terra che avevano pestato i 200.000 soldati partiti per la campagna di Russia e i 100.000 tornati, coi piedi e i sentimenti congelati, in scarpe di cartone. Le stesse che a un certo punto, alzando in aria le gambe, Paolini mostra.

"Il sergente" è il racconto di doppio viaggio. Il viaggio che l'attore ha fatto nel 2002, in treno, in macchina, in battello, nella Russia nuova del dopo Gorbaciov, sulle anse del fiume Don, alla ricerca dei luoghi - Pavolwsk bella come i dèmoni di Dostoevskij, o Nikolajewka, la città dello sfondamento e della carneficina. E le marce di Rigorni Stern del '42-'43, negli stessi luoghi, a 40 sottozero, in una steppa di neve. Non bianca, ma grigia, plumbea. Grigia come i fucili, come i muli, come le emozioni di un ventiduenne che si ritrova vecchio da un giorno all'altro.

I due viaggi a un certo punto si incrociano e prendono forma in una coperta. Il cencio che Paolini ha ricevuto in dono da una contadina ucraina. Il cencio che copre le spalle del sergente Rigoni in rotta. La coperta dei soldati di tutte le guerre.

Al debutto di martedì, la sala del Rossetti era piena di spettatori. A quanti immaginavano di ritrovare Paolini e la sua voce di denuncia contemporanea (la voce di Vajont, Ustica, del petrolchimico di Marghera, dei report televisivi)."Il sergente" ha spiegato che le cose cambiano. Che il teatro non è il luogo delle denunce e delle inchieste, ma il palcoscenico dove la memoria, sollecitata dalle parole, resta viva e agisce come esperienza. E infatti Paolini dice di aver capito che non è distante da lui, che non è "foresta", quell'Armata alpina, montanara, pastora. E di aver ritrovato nelle contadine russe - Rajka, Olga - il suo Veneto di mezzo secolo fa: l'Italia.

Se all'inizio l'attore sta in posa, mussoliniano, da oratore qual è puntando il pubblico fisso negli occhi, davanti a una carta geografica della grande Russia, piano piano, via via che il racconto procede e si snoda lungo quasi tre ore, la narrazione conquista un ritmo placido, quello del Don, il suo dolore, la sua intimità, in una platea dove non fiata nessuno, zittito dagli avvenimenti.

Al ticchettio della macchina da scrivere diventata mortaio e mitragliatrice (la comanda il "maestrino di scena" Marco Austeri), avvolto dalla musica di Uri Caine e di Giovanni Sollima, Marco Paolini allora balla la ritirata dei centomila sotto un lenzuolo-coltre di neve. "Sergentmagiùr, da che parte l'Italia?". "Sergentmagiùr, quando tornèmo a baita?". Bàita. Che è un modo spiega Rigoni Stern - "per dire patria, ma senza offendere nessuno".

02/02/2006

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