Bologna dieci anni fa era capitale della cultura, e adesso chiude il Duse: complimenti, un bel passo avanti”. Marco Paolini mette il suo cappello alla serata, proprio dal palcoscenico del teatro dal futuro incerto. E prende posizione volentieri, come già hanno fatto altri artisti da quella stessa scena. “Questa è una città femmina, io la sento così; ma stavolta ci si deve mettere le palle: i teatri non sono solo muri, spazi vuoti da riempire”.
Poi via, si parte. È appunto come un viaggio questa Macchina del capo, viaggio nell’infanzia e dell’infanzia: Paolini riprende le vecchie storie dei primi Album, quelle in cui il suo alter-ego Nicola era ancora bambino. Otto anni, dieci anni; il paesino del Veneto orientale ai piedi delle alpi, la famiglia e la scuola. Sul campetto di calcio era più difficile ancora, con Ciccio Piova in porta ed Ennio Mosca in difesa. Palla lunga e pedalare, si cresce anche così.
Paolini prova a tornare bambino raccontando, sente e fa sentire della classe di allora l’odore delle gomme da cancellare, il legno del banco e della matita. Nella sua narrazione la materia delle cose s’impasta con le fantasie, con persone vere o immaginarie. Nicola cresce, avanza dal microcosmo di casa sua e del campetto di calcio alla scoperta del mondo (il mare, le relazioni con gli altri, la colonia, il sesso visto da un bambino). E basta la marca di una merendina, di un Cremifrutto o di una spuma, a riportare quegli anni Sessanta che sullo sfondo prendono pian piano forma accompagnando la crescita di Nicola. Il paolini disilluso di oggi lavora sul desiderio e sulla scoperta, usa memoria e recupero.
È possibile tornare il Nicola di allora, all’incanto di raccontare l’infanzia come nei primi Album? Esiste ancora l’infanzia? Le due ore della bella serata rispondono a tutto, e quando Paolini come bis ti racconta il Celentano zingaro degli autoscontri re del luna park, ti rendi conto che staresti lì a sentirlo tutta la notte.
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