Da più di venticinque anni Marco Paolini, bellunese di nascita e trevigiano di adozione, passa da un palcoscenico a una pedana, da un teatro a una palestra o a un palazzetto dello sport, per raccontarci di noi, per ricordarci da dove veniamo e mostrarci le cose che abbiamo lasciato per strada. Un monologo punteggiato di echi e un racconto spezzato da frammenti di dialogo. Ma nelle sue parole non c'è posto per la nostalgia, perché la memoria deve essere indagine e riscoperta di quello che una volta non avevamo potuto o voluto capire. E il passato torna, nell'incrociarsi delle voci e nei volti di tanti personaggi, nello spessore degli oggetti e nel peso dei corpi, ricreando il senso stesso di una comunità che si è dissolta. Così Marco Paolini mette insieme, giorno dopo giorno, i suoi "album" della memoria attiva, dalla prima infanzia alla fine degli anni Cinquanta agli imperiosi sentori di politica e di impegno sociale degli anni Settanta, passando per tragedie e catastrofi colpevoli, disobbedienze civili, viltà e dismissioni, fughe e ritorni, illusioni e disincanti, con una società intorno che si disgrega irreparabilmente. Cinismo mai. Storie tante invece, spesso umili e sempre emblematiche, perché hanno il respiro di una generazione. Vite minime e senza importanza, destinate al limbo dell'oblio. Ma proprio in quelle schegge di esistenza, in una battuta o in un sorriso, in un indugio della voce o in un elenco di nomi e cose che sembra quasi una filastrocca, ciascuno si ritrova, rivede come in un film della fantasia i frammenti di un passato collettivo. Un passato, però, che viene evocato per capire meglio il presente, per spiegare quel tanto che resta sempre da spiegare e per trovare nuova e più autentica consapevolezza di sé e di quanto ci circonda: il trascorrere degli anni e delle stagioni diventa quello delle generazioni.
Attore e interprete solo, sul palcoscenico nudo, pronto a mille travestimenti verbali e facciali per rievocare un'intera partita di calcio nel campetto della parrocchia o l'interno fumoso e affollato di un'osteria di periferia, Marco Paolini sa passare dall'evocazione al dramma, dalle trame poetiche della memoria agli irrisolti e tragici nodi della storia recente, che impregna di passione "civile" e che scioglie nella denuncia e nell'infinito grido politico della collettività. Una collettività che Paolini ha saputo dolentemente e terribilmente ritrovare nelle catastrofe del Vajont, enumerando caparbiamente vittime e danni, spigolando fra cifre e progetti, riecheggiando preoccupazioni e negli allarmi della vigilia, sbandierando silenzi criminali e accuse inascoltate e dimostrando che non si è trattato di fatalità (si sapeva, si sa, ma si doveva anche farsene coscienza per non dimenticare mai), ma di strage annunciata. E tutto questo attraverso la parola ed uno sguardo straniato e straniante, che nel momento in cui penetra nella sostanza delle cose ce le fa vedere, lacerando il nostro torpore con lacrime che non si possono asciugare.
"Orazioni civili" e ballate tragiche, dal Vajont a Ustica, hanno un diverso passo dai bestiari e dalle sparse storie con personaggi "senza importanza" del passato prossimo, ma identico è lo sfondo storico, gremito di volti ed eventi, disegnato con la stessa evidenza di un murale. E non dissimile è il modo di raccontare, senza orpelli e ridondanze, affidando le suggestioni e i lampi della coscienza ad una voce fonicamente e ritmicamente caratterizzato, in una continua alternanza di aggressività e ripiegamenti, che trovano riscontro in una perfetta misura mimica.
Così, nella odierna tournée, "I-Tigi: Ustica" procede parallelo a "Stazioni di transito", due spettacoli datati 2000, ma continuamente rinnovati e adattati e rifiniti, perché, come suggerisce lo stesso Paolini, "c'è voglia di ascoltare parole che devono essere giuste, né troppe né troppo poche".
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