Con “Appunti foresti”, rivisitazione estrosa in forma di monologo del “Milione” di qualche anno fa, Marco Paolini è tornato l’altra sera al Teatro Comunale di Adria, che per l’occasione era letteralmente straripante di pubblico (e sono mille posti e più). Un pubblico che era venuto a ritrovare parole già ascoltate o scoprire più divaganti percorsi. Insomma, una sorta di implicito accordo tra gli oltre mille spettatori e l’attore trevigiano, pronto a dar fondo a tutte le risorse della sua presenza scenica e del suo carisma, ma anche ad offrire gli estri della sua fantasia. Paolini, si sa, appartiene alla rarefatta categoria dell’ “homme-théatre”, vale a dire un uomo capace di trasformare in teatro tutto quello che tocca e che dice, perché offre sé stesso per intero, corpo e voce, certo, ma anche tutto un patrimonio di parole e memorie, sensazioni ed emozioni, scoperte e deliri, in cui ciascuno può riconoscersi e tornare ad esprimersi.
In effetti, gli “Appunti foresti” di Paolini altro non sono che una serie di osservazioni e illuminazioni che si incastrano come scatole cinesi, secondo un filo logico che viene continuamente spezzato e subito riannodato, per offrire al pubblico l’extrasistole del riconoscimento.
Ecco, allora, Venezia, come labirinto della storia e dell’emozione. Borges è lì vicino, ma i labirinti di Paolini sono fatti soprattutto di parole e quotidianità e non di specchi. Nel labirinto veneziano, invaso da orde di turisti giapponesi e no, da botteghe e bazar ricolmi di merci che non servono, Paolini cerca e talora trova quello che si è perduto o che volentieri e senza sapere ci siamo lasciati sottrarre.
Il modo per entrare nel labirinto non è poi tanto semplice e richiede una certa dose di surreale: l’ambiguità del nome Marco Polo che si riferisce al celeberrimo viaggiatore ma anche ad un aeroporto che si sporge in laguna, un aereo pronto a decollare ma inchiodato per un paio d’ore sulla pista, uno sguardo che si conosce ma non si riesce a mettere a fuoco, un barcaiolo abilissimo che è quasi un domestico Caronte, una bassa marea mai vista che lascia completamente in secca bacini e canali. È un viaggio paradossale e un poco sconclusionato, allora, quello di Paolini che si tira dietro il pubblico, sulla scorta della pianta di Jacopo de’ Barbari e perfino del gran mappamondo di Vincenzo Coronelli. Un modo per ripercorrere zigzagando la storia di Venezia, per insinuarsi come topi fra quei lunghi e antichi pali piantati nella melma per sostenere una città, che branchi di turisti mordi e fuggi mettono a dura prova. E il perverso miracolo della sopravvivenza di edifici, nomi imprecisi, modi di dire, mentalità e il trionfo dell’inattualità diventando di colpo speranza, nonostante tutto: non morire Venezia! Una speranza che si alimenta dell’immutabilità degli orari dei treni, delle case fatiscenti che bordeggiano il dedalo di calli e campielli, perfino del turismo, che già nel primo Settecento vedeva Goethe padre tornarsene a casa con in valigia la solita gondola-souvenir (e quanto ci sognò sopra il celebre figlio, che per liberarsene dovette fare a sua volta un viaggio in Italia). Non morire Venezia! Dicono Paolini e il suo pubblico osannante, perché ancora ci salvi dai “non luoghi” e da quel Nord-Est sempre più omologato e minaccioso. Battute e risate, capogiri surreali e visioni apocalittiche un poco fantozziane, e mille altre cose che Paolini porge con quella sua voce che colora la monotonia e dolcezza con mutamenti improvvisi di tono e si arrampica verso un altrove per ritrovare il respiro e la meraviglia scivolando trionfalmente nel gioco delle onomatopee. Gli applausi a scena aperta a finali diventano allora dei momenti liberatori e sbirciare fuori dal labirinto e vedere che il corpo dell’attore ritorna ad essere, per un attimo, il corpo dell’uomo, con volto sorridente e lo sguardo chiaro.
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