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Il Riformista – Il Galileo di Paolini. Elogio dell’errore

«L’unico caso di lavoratore precario che diventa ordinario in un’Università italiana». Questo è il Galileo Galilei di Marco Paolini che per più di due ore conquista (e non era facile) il pubblico pomeridiano del Teatro Argentina. Come si sa, pubblico ostico di non addetti ai lavori e con tanto di scolaresche in gita con i professori. Quanto di peggio si potrebbe immaginare. Ma non per Paolini che parte proprio da lì, dal pubblico, e lo porta con sé grazie alla sua naturale empatia. Che non è, attenzione, gigioneria.

Itis Galileo, che inaugura la stagione dell’Argentina, inizia con un minuto di rivoluzione. Nessuna rifermento al malcontento che aleggia nel paese perché la rivoluzione è quella che facciamo noi intorno al sole. È la scoperta di Copernico fatta sua dal maestro pisano. E per spiegarcela Paolini parte da Platone e Aristotele tra-sformando l’astronomia in spettacolo.

Tra storia e attualizzazione, l’attore, nonché autore e regista, con Francesco Niccolini, fa una vera lezione di storia e filosofia (perché, ricorda,Galileo era filosofo e non matematico come Keplero) rinfrescando la memoria a chi la scuola l’ha finita da un po’ e facendo appassionare alla materia anche i meno avvezzi.

In soldoni il senso è questo: «Con Aristotele la terra risiedeva in centro, con Copernico in periferia. Ci conveniva?».

Ma Paolini non è un insegnante (peccato), è uomo di teatro e così il suo diventa il racconto di qualcos’altro. Di un’epoca, il Seicento, attraversata da grandi scoperte scientifiche ma anche dall’Inquisizione, dalla scissione protestante. Giordano Bruno è appena stato bruciato eppure il sapere non si ferma ma procede, come dirà nel finale, per somme di errori e non per verità acquisite. Insomma già da lì si apre la via verso il relativismo dell’epoca moderna. Soprattutto questa diventa la storia di chi non smette di pensare, di chi combatte l’oscurantismo (questo ce lo spie-gano nelle note di regia).

Infatti Galilei continua la sua ricerca anche dopo l’abiura cui sarà costretto a settant’anni,dopo essere stato corteggiato dai Medici ed aver lasciato l’università di Padova, dove era andato dopo la laurea a Pisa («Uno dei primi casi di fuga di cervelli»), per Firenze dove diventa professore senza obbligo di insegnamento («Il sogno di ogni professore») e anche filosofo così che i suoi libri non venissero relegati tra quelli di matematica.

Tutto grazie a un cannocchiale che, nel 1609, lo renderà famoso e ricco. Poi, appunto, l’abiura che lo trasforma in «uno sputtanato», del resto Tommaso Campanella lo aveva avvisato: non si può, come egli fece, scrivere che i teologi hanno interpretato male la Bibbia subito dopo una scis-sione protestante. E Galileo perde l’appoggio del Papa (l’astronomo dilettante Barberini che tanto lo ammirava). Ma il Seicento è anche l’epoca di Shakespeare e qui Paolini si lancia in un magni-fico pezzo di teatro: Amleto in dialetto vicentino dell’800. Che c’entra il bardo con Galileo? C’entra. Perché le stelle ricorrono costantemente nel-le commedie scespiriane. Si conoscevano? Paolini lo esclude, però il drammaturgo conosceva Tyco Brahe che osservava il cielo ad occhi nudi. Per forza, il cannocchiale ancora non c’era.

È il suo “universo fluido” che ritroviamo nelle grandi opere di Shakespeare. Questa però è anche l’epoca in cui nasce il teatro come me-stiere, ovvero la nascita della prima compagnia. Uno spunto per trasformare, in un momento esemplare dello spettacolo, le teorie copernicane in Commedia dell’arte. È fatto di tutti questi diversi filoni che si intrecciano lo spettacolo, elogio del dubbio, sì, ma soprattutto dell’intelligenza. E, soprattutto, nato per stimolate l’intelligenza di chi lo è venuto a vedere. Un modo per dire: «È facile irridere le teorie quando sono passate. Meno facile è cambiarle quando ci siamo dentro».

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