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“Mar de Molada”, il teatro campestre di Marco Paolini: le date
6 Settembre 2024
di Marco Paolini
I dati scientifici dicono che il cambiamento climatico sta accelerando, non c’è mitigazione efficace in corso. Se finora non siamo riusciti a raccontarlo allora il teatro civile deve cambiare missione. Ci serve un racconto che parli di noi come protagonisti di un’impresa e non come vittime di tragedia annunciata. Le tragedie uniscono, legano attraverso il passato. Le imprese sfidano, muovono guardando al futuro. La tragedia è un usato sicuro per l’artista, fa parte del suo mestiere. Un’impresa è invece materia rischiosa da narrare, può risultare retorica, velleitaria. Evocare un’impresa significa lanciare una sfida al nostro immaginario trasformando spettatori in attori, stakeholders dell’impresa. Impresa non come soggetto di mercato, ma come opera che richiede coraggio, ingegno e cambio di passo. È questo che intendiamo come missione per il teatro civile adesso. Mar de Molada è stato un primo passo su questa nuova strada, Atlante delle Rive sarà il passo successivo. Trent’anni fa ho definito “orazione civile” il Racconto del Vajont. Se la narrazione della cronaca non viene riscritta come narrazione tragica o epica o comica non diventa memoria collettiva.
Marco Paolini durante lo spettacolo “Mar de Molada” a Malga Ciapela (Belluno). (Foto di Gianluca Moretto)
“Fabbrica del Mondo” nasce da quella pratica e dal confronto con il mondo scientifico e l’insieme delle sfide proposte dall’Agenda 2030. Insieme a Telmo Pievani abbiamo costruito una rete di testimoni autorevoli e un palinsesto di storie per un progetto televisivo prima e teatrale poi. Nel 2023 abbiamo proposto una riscrittura per coro del Racconto del Vajont al teatro italiano. VajontS23, è stata una sorta di “chiamata alle arti” che ha avuto una grande risposta di teatro civile. Il 9 ottobre ci sono stati oltre mille racconti corali in Italia e all’estero, in luoghi pubblici e privati dai grandi teatri alle corsie d’ospedale, con una partitura che ciascuno ha adattato al luogo e al tempo delle urgenze.
Ma più che i numeri, imponenti e importanti, conta la consapevolezza che non si trattava di un rito di memoria, ma un grido corale di preoccupata attenzione per chi si sente di condividere un rischio non più circoscritto a una remota valle alpina. La siccità e i fenomeni meteo estremi, l’accelerazione del riscaldamento che carica di energia i mari, rendono fragili le nostre città e i territori. Non vogliamo raccontare altre tragedie, non si tratta di fare profezia di sventura né catastrofismo, ma è inutile ridurre il rischio ad aree marginali o al fatalismo. Vajont è una storia di sottovalutazione del rischio, si racconta per imparare a non ripetere gli errori. Il nome di quel torrente di montagna è diventato quello della tragedia, ma è un’eccezione, di norma usiamo i nomi delle città colpite (l’alluvione di Valencia o di Romagna, Forlì, Cesena), contiamo morti e danni, ma rimuoviamo i letti, gli alvei, le rive e il nome dei fiumi come se il bacino fluviale non contasse. Per questo abbiamo chiamato Atlante delle Rive il nuovo progetto. A inizio anno è piovuto in modo anomalo, primo squillo di un’annata piovosa al Nord Italia con ripercussioni sugli spostamenti. «La circolazione dei treni nella tratta tra Padova e Verona è bloccata per rischio esondazione dei fiumi Alpone e Retrone. Pullman sostitutivi effettueranno il tragitto...». Guardavo le facce dei viaggiatori il 28 febbraio alla stazione di Mestre e mi chiedevo dove fossero l’Alpone e il Retrone.
La Protezione Civile in Europa sperimenta da tempo sistemi di allerta per raggiungere direttamente i cittadini nelle aree a rischio calamità. Nella fase di sperimentazione in Italia i tecnici avevano inserito nel messaggio informazioni dettagliate sui corsi d’acqua a rischio. Poi gli esperti di comunicazione fecero presente che in pochi avrebbero saputo riconoscere il rischio dal nome di un fiume, così li hanno tolti invitando solo a stare a casa, a salire in alto e a non mettersi in strada nell’area in questione. Gli “idronimi” sono oggetto di rimozione della realtà fi- sica dei bacini idrografici in favore di una visione virtuale, fondata sulle reti antropiche di città e strade, ma ogni città sta dentro un bacino idrografico. Ogni considerazione sulla natura del nostro rapporto con l’acqua, con la mappa del rischio idrogeologico, con il consumo di suolo, con le politiche di governance della risorsa idrica disponibile; ogni considerazione sul deflusso ecologico, sui prelievi per uso civile, agricolo, industriale deve fare i conti con i confini dei bacini idrografici che non coincidono con quelli amministrativi.
Se i fiumi in una foto satellitare somigliano ad alberi, è ai rami o al tronco dell’albero che le città sono spesso attaccate. La differenza sostanziale tra un albero e un fiume a mio parere riguarda le radici: nell’albero sono alla base del tronco e l’albero cresce verso l’alto; nel fiume sono in alto, nelle sorgenti, ne disegnano la chioma e un fiume cresce solo verso il basso. Ne consegue che in una tempesta l’albero scuote i rami in alto e resta fisso alla base, il fiume invece scarica la sua energia lungo i rami e il tronco e a volte lo scuote come il tubo in pressione di una manichetta. I muraglioni del Tevere sono lì a ricordare le piene che fino a 150 anni fa Roma conosceva bene.
Venezia prima di altri deviò i fiumi fuori dalla laguna per allontanare i rischi di insabbiamento dei fondali con un’opera idraulica di dimensioni e complessità difficili da comprendere per chi guarda il paesaggio del Veneto centrale oggi. Opere attualmente quasi impossibili da realizzare per la grande frammentazione della governance competente, per la densità antropica e i conflitti di interesse tra pubblico e privato che accompagnano le decisioni sulle opere idrauliche. Oggi la reputazione delle nuove opere idrauliche è in ribasso, ne è caso esemplare il Mose di Venezia. Contestato per l’impatto ambientale, gli alti costi economici di realizzazione e manutenzione e i dubbi sulla sua efficacia nel tempo, il Mose è finito al centro di uno scandalo per un sistema pervasivo di corruzione degli appalti che ha determinato aumenti vertiginosi dei costi previsti. Però da quando è entrato in funzione ha protetto Venezia e continuerà a farlo per un tempo sufficiente a trovare una nuova soluzione. Fra trent’anni sarà inutile, l’aumento del livello del mare impone di costruire un sistema di difesa tutto nuovo, difficile da valutare, ma certa- mente ad alto impatto ambientale e altissimi costi economici. Sarà una decisione politica.
È difficile ridurre una questione così complessa a una classica distinzione tra politiche di destra e di sinistra. Fare una diga è di destra? Opporvisi è di sinistra? Una valutazione laica di costi e benefici va fatta con rigore. Tutte le perdite vanno conteggiate, quelle esclusivamente a carico ambientale non sono più sopportabili, vanno bilanciate con opere di ripristino, di compensazione, ma senza evocare il tabù del “naturale” contrapposto all’“artificiale”. Il paesaggio artificiale italiano non è meno importante di quello naturale. C’è ben poco di vergine da salvare, il consumo di suolo ha già rotto l’equilibrio di prima, il problema centrale da risolvere è trovarne uno nuovo, ricostruendo terreni spugna dentro un territorio, antropicamente denso, in cui difendere la biodiversità, le città e il paesaggio, laminando gli eccessi d’acqua dei temporali feroci, ma anche raccogliendo quella che c’è per quando servirà. Bisogna ragionare in base al bacino idrografico, non in base a comuni e regioni.
Una valutazione laica di costi e benefici va fatta in sede di contratto di fiume, di contratto di bacino mettendo subito intorno a un tavolo tutti i soggetti a vario titolo rivali nelle scelte. I conflitti sono l’anima della democrazia, i contratti nascono dai conflitti e dalle trattative. Consumo di suolo privato e opere pubbliche come ponti, gallerie e alta velocità sono frutto di un disegno ottimista del progresso di un mondo in continuità con quello attuale. La crisi climatica disegna invece una discontinuità, con più rischi per le città e le infrastrutture. In un mondo ideale sarebbe saggio investire in resilienza più che in accelerazione, in ridondanza di reti e di nodi. Sarebbe saggio partire dalla quantificazione della risorsa idrica disponibile, preparare piani di ricostruzione per scenari che rendono temporaneamente inabitabili intere aree, piani per eventi che azzerano la crescita e mettono in crisi i bilanci, piani di riduzione del danno. Bisognerebbe insomma assicurarsi non solo attraverso le polizze, ma attraverso le politiche. Non ho nessuna autorità in materia, non sono uno scienziato, né un politico, ma ascolto le parole degli scienziati e continuo a credere che la democrazia sia la miglior forma di governo. Non vedo però concrete politiche globali di mitigazione dell’impatto climatico innescato dalle emissioni di CO2. I punti di non ritorno, quelli in cui si attivano fenomeni fuori controllo, sono uno scenario del presente, non del futuro. L’unica possibilità concreta è prepararsi in fretta, non subire da soli, ma adattarsi a lavorare in coro chiedendo aiuto a chi ci sta intorno.
Faccio un mestiere di storie e fino a qualche anno fa avrei raccontato solo di vicende umane con protagonisti di ingiustizie, di vittime, carnefici, di sentimenti, passioni e miserie. Mai avrei pensato di cercare storie di acque, suoli e aria, di ecosistemi e di fenomeni fisici, di chimica del carbonio. Sono le storie a cercarti, non tu a cercare loro.
Raccontare il bacino del Piave è stato l’inizio, per sei mesi abbiamo raccolto voci di tecnici, scienziati e testimoni di siccità e di alluvioni, di fiumi e falde del Veneto, immaginando un piccolo teatro con Venezia al centro e una corona di montagne a fargli da sfondo, il Mar de Molada appunto. Siamo stati nelle sale di emergenza della protezione civile, sulle rive dei fiumi pensili, nella rete delle idrovore che pompano l’acqua per tenere asciutta la terra abitata e coltivata, nelle valli degli affluenti e dell’asta principale del Piave. Abbiamo incontrato chi abita le rive, chi studia e difende la biodiversità rimasta, abbiamo ascoltato consorzi di bonifica e irrigazione, gestori di Servizi Idrici Integrati, tecnici di Arpa, Autorità di Bacino e Genio Civile e comitati di cittadini impegnati a tutelare le rive e i fiumi. Abbiamo messo in fila quattro eventi diversi, unici e irripetibili in quattro luoghi del bacino del Piave, raccontando un bacino idrografico. I cori parlati e cantati sono stati l’elemento fondante di Mar de Molada. Oggi da questo lavoro parte Atlante delle Rive. In Europa ci sono 110 distretti idrografici, in Italia ce ne sono 7; cercheremo di raccontarli coinvolgendo teatri, scuole e cittadini in una rete che dia consapevolezza della realtà fisica del nostro Paese. Sarà un lavoro di anni, con traguardi intermedi in cui presentarne il risultato, le opere nate dalle ricerche.
In democrazia l’equilibrio dei poteri è un fondamento fisico, la scienza e la cultura giocano un ruolo che ha peso variabile nelle stagioni sociali (che possono esser più brevi di come le immaginiamo). Chi come me fa teatro non può preoccuparsi troppo di cosa penseranno i posteri della sua opera, il teatro si fa ora e deve servire a chi c’è adesso, e adesso serve un’impresa. Un’impresa corale che aiuti a cambiare passo. E se fosse tardi, se fosse inutile? Noi facciamo teatro adesso, non ci preoccupiamo del giudizio dei posteri, avranno altro a cui pensare.
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