C'entra il Paolini corsaro, quello che con decenni d'anticipo aveva già capito, già previsto; quello che parlava dell'effetto alienante e spudoratamente mercificatorio dei medium di massa quando la nostra tivù ancora passava i siparietti di “Carosello”, quello delle inchieste scomode e dei “io so” (“Miserabili” nasce anche dalla lettura di “Petrolio”»). C'entra il Ginzborg che acutamente analizza la deriva familista della nostra società ("Siamo un paese vecchio nel quale la giovinezza, paradossalmente, diventa uno spettacolo osceno; è quello che dico in “Album d'aprile”: siamo diventati vecchi senza diventare adulti. Ci aggrappiamo all'unico collante sociale che abbiamo: la famiglia. Che, in questo contesto, non può che diventare un elemento patologico"). C'entra Andrea Zanzotto ("I potenti dovrebbero leggerlo. La loro visione è spesso miope..."). E c'entra Tina Merlin, partigiana, scrittrice e giornalista, la donna che, coraggiosamente, prima della tragedia del Vajont, denunciò i pericoli che Erto e Casso avrebbero corso se si fosse costruita la diga. Il suo libro, “Sulla pelle viva”, scritto poco dopo i fatti del 9 ottobre 1963 (ma la Merlin riuscì a trovare un editore solo vent'anni dopo), a Marco Paolini ha cambiato la vita. "Quello che faccio oggi a teatro nasce dall'incontro con quel testo", dice. Un'altra storia tipicamente italiana, quella testimonianza. Non solo la Merlin non fu creduta, quando alzò la voce contro la follia di quel progetto, ma fu pure citata in giudizio per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico”, e quindi processata (e assolta) dal tribunale di Milano. La formula l'abbiamo sentita di nuovo nei giorni scorsi: niente di nuovo, la solita sindrome del passato che ritorna, il sempre ricominciato problema che nessuno si sentì di affrontare alla radice. Ma del terremoto in Abruzzo Paolini preferisce non parlare ("Non commento. È meglio. Anche perché è inutile sparare sulla croce rossa"). Ma parla del suo lavoro. Di “Album d'aprile. Tra un campo di rugby e la piazza” (venerdì 17 alla Città del Teatro di Cascina e sabato 18 al Teatro dei Vigilanti di Portoferraio, con le musiche dal vivo di Lorenzo Monguzzi dei Mercanti di Liquore), un “racconto di formazione che condensa le storie di ragazzi di provincia nel passaggio dalla giovinezza alla maturità”, una “storia inventata con dentro molte cose vere – come l'attentato di piazza della Loggia – mescolate e combinate” ("C'è il rugby, gioco a cui non ho mai giocato, ma che mi è stato insegnato da chi lo pratica con passione, e del quale ho capito questo: è costruito su un sistema di regole che ti permette di imparare qualcosa che ti porti dietro anche quando non sei più un ragazzo; e cioè su un sistema adulto"); e di“Miserabili. Io e Margaret Thatcher” (domenica 19 al Teatro Moderno di Grosseto e lunedì 20 al Teatro Goldoni di Livorno), un “racconto in forma di ballata, che ricostruisce in quadri la metamorfosi della società italiana a partire dagli anni '80. Gli sguardi e le parole di questo attore-autore che il grande pubblico ha conosciuto con lo spettacolo sul Vajont, ci attraversano da parte a parte. Le cose che dice dal palco ci scrutano, ci mettono a nudo. L'impatto fortifica, nonostante ferisca. È che ogni tanto sentiamo il bisogno di ascoltare una voce che ci descriva per come appariamo a chi ci osserva dalla giusta distanza. Senza abbellimenti posticci, senza tranquillizzanti effetti speciali, senza anestesie. Solo quello che continuiamo ad essere da decenni. Il teatro di Paolini ci offre la rassicurante prospettiva di poter sempre contare su una voce che ci riconnette con la nostra coscienza civile. Un compito arduo, una fatica probabilmente più adatta a un Sisifo che a un artista di teatro. "Forse non è il caso di prendersi la delega di fare il narratore civile di un paese come questo. Perché è una bella rogna. Che sì, ti dà lavoro finché vuoi, potrei invecchiare raccontando le nostre sfighe, visto che ne abbiamo tante; ma mi sembra un po' troppo comodo. Gli italiani non possono cavarsela facendosi raccontare le loro sfighe. Dovrebbero finalmente incazzarsi sul serio. Con se stessi, e non con qualche altro". Alla fine si tratta di capire il come e il perché "al popolo italiano si è bloccato lo sviluppo". Già: come mai siamo diventati vecchi senza diventare adulti? Si tratta di rovistare, cercare le risposte. In queste due messe in scena che sono l'una il continuo dell'altra - “Miserabili” inizia da dove “Album d'aprile” finisce – di spunti per pensare ce ne sono parecchi. Il rugby sinonimo di lealtà, una palla “allungata, imprevedibile come la vita”, gente mai grande davvero, le regole dettate dall'alto, le stragi italiane, il liberismo spinto, la vita come un gigantesco, patetico jingle, gli spot che ci hanno rincretinito ("Siamo cullati dall'idea – che è della pubblicità – di essere giovani fino ala tomba. L'essere giovani in qualche modo ci assolve dall'assumersi una responsabilità da adulti"), la Thatcher, le intuizioni di Pasolini, il familismo, il tramonto del presente, gli spartiacque generazionali che non spartiscono, la metamorfosi dei costumi, lo spostamento della nostra personale scala di valori ("Il nostro futuro dipende più dalle prossime promozioni che non dalle prossime elezioni"). Nello spazio e nel tempo di questi due monologhi, tutto ciò riaffiora e si palesa. Basta aver voglia di guardarlo in faccia, il posto vacante lasciato libero (chissà quando, chissà perché) dalla nostra cultura. "Mentre l'economia e la politica sono chiaramente in campo, la cultura è una specie di Cenerentola. Qualcuno pensa ancora che sia una cosa legata ai musei o alla conservazione degli enti lirici... No, cultura è come mangiamo, come cresciamo, la nostra capacità di imparare i linguaggi, di relazionarci di avere un'identità. Sì, siamo diventati vecchi senza diventare adulti. Basta vedere quanto sono giovani i paesi stranieri per capire quanto è vecchio il nostro". Forse dall'estero ci vedono dalla giusta distanza. I giornali esteri spesso ci criticano. Noi ci arrabbiamo. Scrive Philippe Ridet, editorialista di “Le Monde”: “Suscettibile, Silvio Berlusconi? Sì, ma non più degli italiani che rifiutano di riconoscersi nello specchio che tende loro la stampa straniera”. Ecco, forse c'entra anche questo, negli spettacoli di Paolini. (Venerdì 17, alle 18, Marco Paolini incontra il pubblico alla Città del Teatro di Cascina. Coordina il critico teatrale Simone Soriani).
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