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Il Venerdì di Repubblica – "Noi italiani? Ci indigniamo però poi ci viene sonno…"

"In Italia l'indignazione dura meno dell'orgasmo. E poi viene sonno". Ottima battuta. La pronuncia Marco Paolini in I-TIGI a Gibellina il dvd che ripropone il suo Racconto per Ustica registrato in una notte tempestosa del 2002 sul Cretto di Burri a Gibellina. Un work in progress lunghissimo, l'approfondimento di quel Canto per Ustica messo in scena (con Giovanna Marini) nel 2000 a Bologna e Palermo per il ventennale della strage di Ustica, pubblicato ora da Einaudi in un cofanetto libro-dvd. Tanto per rinfrescare la memoria, nel tratto di mare fra Ponza e Ustica, il 27 giugno 1980 sprofondò il DC9 Itavia, matricola I-TIGI, con 81 persone. E non abbiamo ancora ufficialmente capito come e perché.
Le battute di Paolini sono rare e fulminanti. Non è uno che strappa la risata, e con serietà altrettanto rara avverte: "Non ho la verità in tasca e, a teatro, ho sempre cercato di fare il possibile per non dare peso alle mie opinioni: non sono un elzevirista. Né un esperto di catastrofi o tragedie, il mio Paese lo è molto più di me, non mi prendo una tale delega. E non vorrei riaprire la ferita delle persone colpite da quella vicenda con semplici banalizzazioni".

Massimo rispetto. Ma ci spieghi perché nel Paese delle "toghe rosse" e della "giustizia a orologeria" non si riesce mai ad avere una sentenza che faccia luce sui nostri misteri.
"Vedersi appiccicare un'etichetta politica darebbe fastidio a me e immagino lo dia ancor di più ai magistrati: non credo quindi che dipenda dal rispettabile orientamento delle loro scelte. Detto questo, è innegabile che indagini tanto lunghe e complicate producono un volume impressionante di documenti. Mi chiedo se le parti coinvolte nel processo facciano in tempo a leggerli. E mi chiedo anche se non sia il caso di darsi dei limiti per rendere le istruttorie più umanamente compatibili coi tempi di un processo".

Bella domanda, ma come?
"Accertando per piccoli passi invece di mettere tutto insieme. Si insegue la spiegazione finale senza la pazienza di collegare i dettagli. Come chi ha sempre in mente il complotto nel senso di cosa grossa, per cui tutto è riconducibile a Licio Gelli. Le semplificazioni vanno bene in letteratura, per produrre una spiegazione che, senza prove ma per ragionamento, arriva a una conclusione. Negli altri casi, dovremmo avere l'umiltà di dividere le cose più complicate in pezzi più accessibili".

Come i pezzi del DC9?
"Se vedo come sono raccolti e catalogati i resti di un aereo caduto in mare di questi tempi o come ci si muove nelle catastrofi giapponesi raccontate da History Channel, non posso non fare un confronto con la sciatteria che ha caratterizzato le repertazioni di Ustica".

La sciatteria è alleata dell'insabbiamento. Quale dettaglio di questa indagine all'italiana l'ha scandalizzata di più?
"Difficile dire, però c'è un aereo, un caccia, che parte da Grosseto per portare dei tracciati radar in Sicilia e, quando arriva, nel portabagagli, che dev'essere come quello di una 500, i tracciati non ci sono più: persi. Sembra una zingarata di Amici miei, ma che possa morire chi se l'è inventata. E la cosa peggiore è che una generazione che non ha risolto i suoi problemi pretende di istituire le giornate della memoria. Si trasmette alle nuove generazioni un fardello di cose irrisolte e la sensazione destinata a diventare senso comune che niente può essere saputo e conosciuto. Ognuno ha la sua verità. Quella del senatore Cossiga, il giorno dopo la sentenza, fu che l'aereo era stato abbattuto da un missile francese".

A proposito, con Gheddafi a Roma, nessuno si è ricordato del Mig libico che sembrava avere le sue responsabilità nella tragedia di Ustica.
"È una farsa. Ai tempi dello spettacolo sono stato sorvegliato, assalito da mitomani e brutta gente che voleva insinuarsi nella mia famiglia, ho ricevuto lettere e telefonate sgradevoli: a tutti quelli che mi davano la loro versione ho detto di rivolgersi al magistrato. Su quel maledetto Mig ho sentito di tutto. Ma il colmo è stato quando, con Daniele Del Giudice che preparava il lavoro con me, siamo entrati nell'hangar di Pratica di Mare dove era conservato il relitto del DC9: c'era anche un pezzo di quel Mig e il serbatoio di un caccia americano. Perché quei resti erano tutti insieme? Non c'era un altro posto dove accatastarli? Se non c'entravano niente, era indecente
accostarli".

La smemoratezza italiana non dipenderà dal fatto che le nostre tragedie sono così oscure? Difficile capire, ricordare.
"Le racconto un fatto. Nel 1998, dopo lo spettacolo sul Vajont, dei ricercatori della Columbia University mi invitano in America a un congresso mondiale di esperti in catastrofi italiane. C'è quello che ha dedicato la vita al maremoto di Messina, il signor Terremoto del Friuli, il professor Alluvione di Alessandria e io sono lì perché vogliono farmi una domanda: con questo territorio che brucia, allaga, frana, trema, con i terroristi, la mafia, le stragi, siamo il Paese della futura Eurolandia con il maggior numero di sfighe. Ma come abbiamo fatto a restare vivi?".

E lei cosa ha risposto?
"L'unica cosa che mi è venuta in mente. Conosco famiglie che il morto in casa non ce l'hanno da tantissimo tempo e ne conosco altre che passano da un guaio all'altro e tu non osi metterti nei loro panni, chiederti: "Ma come fanno?". Non siamo un Paese piano, con tradizione di nazione, ma piuttosto di localismo, geograficamente difficile, socialmente non compatto, linguisticamente unificato di recente, politicamente ancora legato ai campanili: come fai a sopravvivere a una tale somma di catastrofi? Hai due opzioni, elabori il lutto o lo rimuovi".

Pare che la seconda prevalga.
"È chiaro. Non possiamo focalizzarci su un sentire comune perché, anche se alcune cose potrebbero unire, la somma delle tragedie è tale che la rimozione serve a ritrovare una quotidianità e un futuro. Nel tempo breve è comprensibile, ma, alla lunga, determina l'incapacità di essere adulti. E c'è un altro fatto: quando c'è una nuova disgrazia si rievocano le precedenti in un album nostalgia che mischia le cose risolte e quelle irrisolte. Per dire, la ricostruzione del Friuli non è come quella dell'Irpinia: non impari la lezione se non sai qual è quella giusta. Non si costruisce così il futuro".

E come si costruisce?
"Tre elementi caratterizzano una società: l'economia, la politica e la cultura, che non è un panda o il Fondo unico dello spettacolo, ma il sentimento di un popolo. L'arroganza dei poteri economici e politici consiste nel credersi in grado di condurre da soli una società, ma è la cultura che permette di capire ciò che è impagabile, non negoziabile. Non si possono fare ciclici appelli al bene comune se non c'è un patto di fondo a tenerci insieme. Obama ha regalato un futuro agli americani perché il suo discorso non è solo legato alla sfera politica: ha rifondato in modo credibile l'immagine di un futuro, di una speranza. Quel popolo sarà naïf, ma è più capace di rifondarsi, perché è più giovane".

Mentre noi siamo decrepiti?
"Fuori tempo massimo per rimettere mano al nostro patrimonio culturale: quando lo nominiamo pensiamo al Colosseo o altre cose da vendere ai turisti. Sembriamo Totò nel dopoguerra con gli americani. Di questo passo, l'unica alternativa è: diventare come Bali o Mauritius?".

Di questo passo, perché la vita erotica di Berlusconi destabilizza il governo più della sentenza Mills?
"Credo che la mamma di Monica Lewinsky, quando le indicò il congelatore come luogo dove conservare un indumento gravido di indizi, abbia tracciato un solco nella storia politica del mondo. Da allora, ogni mamma italiana di fanciulle che frequentano ambienti per bene sa dove tenere le prove. Se dovessi indagare, partirei dai surgelatori".

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