Il Veneto che non t’aspetti, semplicemente perché di solito non te lo raccontano, specie al cinema. Due film “nostrani” escono dalla Mostra di Venezia, dove peraltro non figuravano in pole position, con gli onori della critica, buone recensioni in genere, e con il plauso del pubblico, per una volta prontamente nelle sale. Merita vederli, alla prima occasione, anche perché non capita tutti i giorni.
Il più tosto dei due è Effetto domino di Alessandro Rossetto, scritto con Caterina Serra e liberamente ispirato al romanzo omonimo di Romolo Bugaro, pubblicato una prima volta da Einaudi nel 2015 e ora nuovamente in libreria con Marsilio. Dire tosto è persino poco, un pugno allo stomaco piuttosto, che itera e amplifica l’amarezza del precedente lavoro del regista padovano, Piccola patria (2013), anch’esso immerso in quel paesaggio con rovine, anche umane, che contrassegna ciò che rimane del “mitico” Nordest. Liberamente ispirato, perché se il romanzo di Bugaro si concentrava sulle parabole esistenziali di personaggi emblematici, tutti rigorosamente del luogo, nel film lo scenario osa maggiormente, disegnando un complotto internazionale, ordito dai cinesi di Hong Kong, certamente verosimile nell’epoca della globalizzazione spinta. Vediamo.
Periferia “pregiata” di Padova, verso colli e terme. Un imprenditore cinquantenne del mattone di nome Franco Rampazzo, venuto dalla gavetta, ex muratore, moglie e due figlie nell’azienda di famiglia, come tradizione comanda, ha la geniale intuizione di raccattare una ventina di condomini abbandonati per trasformarli in residence di lusso per anziani, che saranno oltre la metà dell’intera popolazione nel 2050, gli unici – probabilmente – a disporre di risorse più che sufficienti per godersi la vita. O almeno quel che ne resta, ad una certa età. Quella media, come si sa, s’allunga e se davvero la meta finale sarà il paradiso, perché non accelerare? Un bel paradiso, in terra, senza Dio, con ogni possibile comfort: saune e wellness, piscine e brunch, escort magari, e feste, tante, per socializzare, sempre. Altro che ospizi! Condomini ed ex alberghi da prendere all’asta, ristrutturare e poi piazzare sul mercato a prezzi “ragionevolmente” alti, previa azione di marketing allettante: il paradiso, appunto. E certo che ci vogliono capitali, soci, coperture finanziarie adeguate, gli aiutini giusti in comune, ma le banche non sono lì esattamente per questo? Al fianco di Rampazzo c’è il fido geometra Gianni Colombo, uno solido e navigato, fatto per risolvere i problemi, una garanzia… Forza Rampazzo, che è la volta buona, l’occasione della vita, prima che anche la tua faccia il suo inevitabile corso.
La telefonata che Rampazzo non s’aspetta è della banca, che comunica di uscire dall’affare: niente finanziamento e conti bloccati, a cantieri ormai aperti e con le imprese del subappalto a loro volta indebitate, a pezzi. Motivo della retromarcia, il prezzo troppo elevato di vendita, su cui peraltro non è possibile tornare indietro, la banca si chiama fuori. In alternativa, ci sarebbe il giovane Fabris, erede della fortuna lasciatagli dal padre, buon amico del Rampazzo, ma i figli mica sono fotocopie dei padri e questo te lo raccomando, ha pure il dente avvelenato e un edipo di troppo. Il tutto mentre a Hong Kong qualcuno pianifica un grande imbroglio, complici un finanziere senza scrupoli della banca e un’insospettabile quinta colonna… Di più non è lecito dire, perché Effetto domino è un affresco antropologico e sociale al nero, da scoprire poco per volta, lungo i sei capitoli con epilogo (Finché c’è speranza, s’intitola, beffardamente) di una discesa agli inferi che fa da contrappasso al paradiso in terra, che alla fine sarà edificato, ma da altri. Squali, anche se il brand vincente è una medusa, di quelle che – dicono – non muoiono mai.
Piace ritrovare lo sguardo sempre tagliente di Rossetto, quel suo mappare visivamente il paesaggio, le facce gaglioffe di chi la sa lunga e gli smarrimenti ingenuotti di chi soltanto pensava di saperla lunga, l’ossessione per i crocifissi del giuda di turno (era o non era bigotto il Veneto che fu?), l’ipocrisia dei rapporti sociali e la fragilità di una ricchezza quasi involontaria, anche se frutto di “duro lavoro”. Forse il commento della voce fuori campo (è di Paolo Pierobon) didascalizza più del necessario, ma gli attori – tutti rigorosamente in veneto con calata padovana, sottotitoli italiani per chi non è pratico – sono di una bravura eccezionale, a cominciare da Diego Ribon (Rampazzo) e Mirko Artuso (Colombo), passando per le figlie (Roberta Da Soller, Maria Roveran), il doppiogiochista Marco Paolini, il luciferino Vitaliano Trevisan, che fa il prete, sempre attento ai “beni” dei fedeli, specie in via di estinzione (“Noi arriviamo sempre da dietro, da secoli, no?”). E un plauso anche al contrappunto musicale, Vivaldi, ma quello algido e drammatico dell’opera seria, fuori d’ogni possibile stereotipo. La battuta da mandare a memoria è di una donna cinese, che al giovane impassibile di Hong Kong in missione per l’italian job, solito a snocciolare perle di saggezza pseudo confuciana, obietta con un adagio imparato dalle nostre parti: “Chi parte mona, torna mona”. Da prendere come mirabile sineddoche: un particolare per il tutto.
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