Il “Bestiario italiano” di Marco Paolini sul palco del Teatro Valle
Parla in musica Marco Paolini e gioca con le parole alla ricerca di un idioma adatto a raccontare le vicende di una provincia, ora teatrale e subito umana nell’ambizione di acquisire i contorni di una possibile storia d’Italia: “Bestiario italiano” è dunque un percorso di poeti e gente comune, ma soprattutto di impressioni di viaggio mai legate all’aridità di una cartina geografica ove si rende concreto un filtro sensibile.
Dopo l’exploit televisivo - prima de “Il racconto del Vajont” in un moderno recupero di quello che potrebbe essere denominato ‘teatro civile’, e poi nel passaggio recentissimo di “Bestiario Veneto” – il menestrello di Treviso instaura un rapporto diretto e preziosissimo col pubblico, in un afflato metaforico che riscalda, inebria e conquista la platea, subito stretta in un confidenziale abbraccio. Non è più da solo Paolini che si accompagna alle vocalità popolari di Daniela Basso, Silvia Busato e Cristina Vetrone, sulle incursioni musicali di Stefano Olivan, Lorenzo Pignattari e Francesco Sansalone.
Due ore e quaranta di spettacolo al Valle condotte in una comoda naturalezza contadinesca, vestita di pantaloni di velluto e bretelle abbassate per raccontare, in modo ironico ed autentico, della quotidianità di fabbriche e operai, come dei mondi di Benetton e De Longhi. Si amplia così, il percorso che questo quarantenne avido di peregrinazioni traccia in modo pulitissimo ed orizzontale: pur rimanendo ben ancorato al suo Veneto infatti, Paolini prova ad avventurarsi oltre il Nord per procedere, quasi impaurito e disorientato, verso quel Sud che rimane troppo cartolina e musica folk per nutrirsi del lirismo di poesie e parole. Puntando sulla Sicilia di Palermo, Catania, Caltanissetta e poi risalendo a Bari, una tappa a Genova e una a Trieste, il narratore si sofferma a Napoli e nei dintorni di quella lingua dialettale con la quale “si può fare tutto” esclama come invidioso l’attore che, mentre propone Di Giacomo e Russo, si avventura a ricavare un’improbabile melodia da una tammorra.
Un forestiero che non si accontenta di paesaggi ingabbiati nella perfezione patinata ma che ama tracimarvi orme e tracce, già segnali di vite che si incontrano ed incrociano alle lingue di Zanzotto, Campana e Marin per guardare dietro le vedute. Si parla di strani “cani del gas” nel sottotitolo dello spettacolo, sono quegli animali diventati domestici fuori dai distributori di carburante, quelli che ti osservano dal ciglio della strada ed “hanno imparato su di noi quel che gli basta – sottolinea e conclude Paolini – a loro in ogni caso ho dedicato il viaggio”.
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