È una questione di tempo. La narrazione è un metodo di lavoro che richiede tempi molto lunghi. Il racconto ha bisogno di maturare assieme al narratore e all’ascoltatore. E questo succede anche quando si scelgono storie già scritte, già conosciute. Il narratore o contastorie ha bisogno di mettere ordine, di trovare un linguaggio “popolare”, immediato, poetico; di disegnare tra le parole le immagini della storia, scoprendo quel valore aggiunto che prende le distanze dalla sola lettura drammatizzata delle pagine.
Quindi è anche una questione di tempo. Quanto? Non si sa, pare. Nel caso di Marco Paolini e del suo “Ballata di uomini e cani”, due anni non sono ancora sufficienti, e dopo aver raccontato le avventure scritte da Jack London tra rifugi, boschi e pianure, replica nei teatri ancora sottoforma di studio.
Due ore di studio, a dirla tutta, che catturano e riempiono i teatri. Come è avvenuto per il teatro di Villa dei Leoni di Mira, in provincia di Venezia, che dopo averne ospitato, per quattro serate, le prove aperte (a pagamento), ha inaugurato così - trionfalmente - la stagione di prosa di quest’anno.
Tra qualche incespicata e qualche lapsus, ormai un must dell’attore ma al quale il pubblico non sembra far caso, Paolini racconta le vicende di “Macchia”, “Bastardo”, “Preparare il fuoco”, e le corse di quei vagabondi che saltavano di notte sui treni per raggiungere una nuova città. Ecco allora che è London-Paolini a diventare lo stesso protagonista delle vicende, a giocare tra parole e musica, con quella leggerezza interpretativa e quegli slanci nordestini, sagaci e divertenti, che aprono e rendono diretto il linguaggio narrativo.
Nell’immaginario comune si delineano fin da subito l’inverno gelido del Grande Nord, le slitte, i cani, le baracche dei cercatori d’oro, le rive dei fiumi dove spulciano le loro pagliuzze, l’assalto ai treni; ma anche il rapporto uomo-cane, interscambiabili e fedeli amici e nemici, e il rapporto uomo–natura, nella sua doppia valenza.
Come anticipa lo stesso titolo (provvisorio), questo spettacolo-studio è una ballata. La musica originale, tra l’altro molto azzeccata, di Angelo Baselli (clarinetto), Gianluca Casadei (fisarmonica) e Lorenzo Monguzzi (bellissima voce e chitarra) incalza non solo come intermezzo e didascalia, ma tiene costantemente sottobraccio tutte e quattro le storie, divenendone parte integrante. Pezzi originali si mescolano a sonorità folk di matrice americana, reinventando soggetti musicali più tradizionali e conosciuti come la “Casetta in Canadà”, refrain e metafora della ricerca di fortuna e libertà.
Gli stessi bidoni colorati, che costituiscono parte della scenografia, sono all’occorrenza strumento musicale, traballano e battono il ritmo come vagoni di un treno in corsa verso il nord, o diventano nascondiglio o rifugio per qualche vagabondo o “marinaio della neve”.
Tutto si incastra, si intreccia, diventa tessuto drammaturgico. Tutto o quasi funziona. Forse l’intervallo che spezza lo spettacolo in due tempi è di troppo, e gli schermi rettangolari che piovono dall’alto come una tastiera di ghiaccio sospesa, sui quali scorre l’animazione dell’ultima storia, non convincono fino in fondo.
Certo è che se “quelli che vendono le storie sono come quelli che ingannano le vedove”- dice in battuta Paolini in apertura al pubblico - forse vendere questa bella Ballata ancora come uno studio è alquanto superfluo!
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