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La fabbrica del mondo: la serie televisiva dal format inusuale per parlare della Terra

La fabbrica del mondo è la serie originale, disponibile su Rai Play, che si propone come una riflessione sulla tecnologia in tre puntate. Se, come dice Ferraris, l’imbecillità è un cosa seria, è proprio perché essa è in-baculum (termine dal quale deriva imbecille), cioè senza bastone o per meglio dire senza tecnica, strumento.

In questo senso l’antropologia è la storia dell’evolversi della tecnica che mutando ridefinisce l’uomo e il suo rapporto con l’ambiente. In questa epoca geologica dai molti nomi, la tecnica è giunta a condizionare tutta la fabbrica del mondo in un rapporto simbiotico.

Come ricordano alcuni la terra è un olobionte, un enorme organismo dotato di sue dinamiche interne e instabili, emergenti, ma, come altresì insegna la biologia, l’instabilità è ciò che permette la vita, perché è legata alla pluralità, alla mutazione, alla non linearità (l’evoluzione è un cespuglio, un rizoma).

Così Marco Paolini, Telmo Pievani e Marta Cuscunà si avvicendano seguendo molteplici filoni che, di puntata in puntata, si concentrano intorno a un nucleo tematico; è l’occasione per riprendere i loro singoli lavori, le loro tecniche ed elaborazioni per combinarli, metterli insieme in una formula che mancava alla televisione italiana.

Paolini ritorna alla riflessioni di tecno Filò; technology and me, del Vajont, Pievani al caso Covid come storia evolutiva ma anche agli scenari futuri del territorio italiano con la crisi climatica che avanza e Cuscunà alle arti visive di cui è maestra con i suoi ironici volatili.

Se volete approfondire la complessità del nostro pianeta troverete una cornucopia eclettica che ripercorre la storia della nostra specie, dei suoi pregi e di come si è cacciata in un guaio.

Tra i tanti personaggi che tirano le fila del ricco materiale, troviamo un Noè alle prese con una inattuabile agenda 2030 e con Gaia, la personificazione dell’olobionte, rappresentata come una donna scostante, eccessivamente stereotipata e troppo vaneggiata. Ed è proprio un filo, o meglio una fune, ad essere parte di una delle molte efficaci metafore del programma: noi siamo tutti ca-funi che hanno sempre bisogno di recuperare il patrimonio della nostra specie, che siano comportamenti, adattamenti, linguaggi, saperi.

Tutto questo costituisce una tecno-logia che si compone davanti ai nostri occhi, un discorso sulla technè, sull’acquisizione di abilità crescenti e diversificate che rappresentano la catasta su cui si basa l’evoluzione, del dna come della cultura umana (“non si butta via niente, non si sa mai”).

Partendo da questa condizione la riflessione non può che andare al jet lag fra la tecnologia e noi che, presi dalle accelerazioni della modernità, finiamo per esserne succubi: siamo sempre fuori tempo, incapaci di adattarci alla velocità di cambiamento del sistema che abbiamo creato (“Io sarei stato dalla parte dell’iceberg e non del Titanic, perché voleva dire: state andando troppo in fretta”) e, poiché il sistema sembra avviato così a collassare, necessitiamo di un salto di paradigma.

Passando da un filone all’altro e nel susseguirsi di personaggi simbolo dell’ecologismo (Naomi Klein, Noam Chomsky, Naomi Oreskes ) arrivano idee, tante e spesso già confezionate come slogan. “La misura è il nostro sesto senso”, in una sintesi alla Simone e André Weil, è ciò che ci permette di riconoscere il limite e di dare il giusto spazio per rigenerare la natura. Questa rigenerazione è di sistema, serve a garantire la riproducibilità tecnica delle risorse e della biosfera nell’epoca dell’arroganza massima dell’uomo.

“Per la manutenzione serve l’emozione” dice Paolini, che da bravo storyteller riconosce l’importanza del suo mestiere in questa fase storica, d’altronde ce lo dimostra proprio facendo questo programma. Per agire serve legare i dati, i fatti, le idee di cambiamento al senso comune per costruire un ritrovato rapporto sentimentale con il futuro. Far vedere la cattedrale. Qui sembrano riprendere una frase carica ai cinefili: “Motion is emotion”.
E ancora, “l’acqua non è una merce”Necessitare della scarsità delle cose per poter attribuire loro valore ci spinge in un cul de sac, lo facciamo quando è troppo tardi e spesso ci illudiamo di poterlo fare, di poter speculare sul vivente.

E infine, “viviamo tutti in riva al mare”I cambiamenti in atto colpiranno tutti, se il mare si acidifica cambia il mondo, dovunque tu viva. Verrebbe qui da aggiungere: non tutti però li hanno causati e qui c’è parte della soluzione e del problema, ma ne parleremo un’altra volta, per il momento meditiamo, amici.

di Emanuele Akira Genovese per conto di Valeria Belardelli

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