Falce e carrello (della spesa). Il ’900 ha visto bruciare le sue icone la notte in cui crollo il Muro di Berlino. E con la stessa brevità del «secolo breve» Marco Paolini ha scelto un altro 9 novembre, 20 anni dopo, per raccontare questa storia al Porto di Taranto nello spettacolo Miserabili. Io e Margaret Thatcher.
L’Italia ha conosciuto la cornice straordinaria e inedita del terminal container di Evergreen grazie alla diretta televisiva di La7 (ha fatto registrare il 4,6% di share media, oltre 1,1 milioni di telespettatori e 4,7 milioni di contatti). Tra il pubblico che ha sfidato la pioggia e il vento pungente anche il presidente della Regione Nichi Vendola.
Scene di contenitori e contenuti del teatro civile: parole, poesia e musica nel gioco di rimandi tra Paolini e la band «I mercanti di liquore».
Dentro e fuori i container il mercato, i traffici, la libera circolazione delle merci ma anche il Muro di Berlino. Si, proprio quello. Rapido il calcolo dell’autore de Vajont mentre di arrampica in scena: «Un container è altro 2 metri e 80 centimetri. Più o meno d’altezza del Muro». E poi il debito, il vertiginoso impoverimento della middle class complici bancomat, carte di credito e titoli tossici.
Il motore della storia finisce per perdere giri: il mutamento genetico della classe lavoratrice italiana complice lo scambio di identità fra libertà e mercato. Un malinteso che nasce, appunto, la notte in cui crollò il Muro di Berlino complice la sprezzante teoria thatcheriana della privatizzazione e dell’abbandono del concetto di beni e servizi pubblici: «Erano ormai il vecchio».
Marco Paolini, nelle due sere di spettacolo al porto di Taranto, ha spiegato la beffa atroce che accomuna oggi il ceto medio, i lavoratori, ai Miserabili di Hugo «che prostituivano le figlie». Se la miseria non è la povertà, cioè se la misera non ha senso del limite, l’unica speranza, secondo Paolini,non è il Superenalotto ma la riconquista di una libertà collettiva, consapevole (finale con Gaber).
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