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La Provincia di Como – "La mia ballata nelle terre selvagge seguendo London"

Dal 3 al 22 febbraio Marco Paolini sarà al Piccolo Teatro Strehler (Largo Greppi, 1 Milano) con Ballata di uomini e cani, un tributo a Jack London. L’abbiamo incontrato per parlare di quest’ultimo progetto teatrale.

-London è tra le grandissime voci che hanno raccontato la wilderness (la natura più incontaminata, estrema). Oggi che tutto sembra esser mappato, che si ha come l’impressione di stare in spazi ben recintati, per lei è ancora possibile vivere la vastità dell’ignoto?

-Mi sono posto il problema più volte. Quella dimensione dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso penso sia più un’aspirazione dello spirito che una condizione geografica. Il selvatico non occorre andare a trovarlo a chilometri di distanza. Pur nel rispetto del mito della frontiera ho cercato di non rimanere imprigionato in un immaginario troppo esotico, potente, ma che non ci appartiene. Mi è stato d’aiuto Hugo Pratt, che nelle avventure di Corto Maltese nei Mari del Sud inventa per i cannibali sulle piroghe una lingua mutuata da fonemi e località della sua laguna veneziana. Anch’io, come lui, ho cercato di comporre una ballata, servendomi delle composizioni di Giuseppe Verdi,  arrangiando musiche di ispirazione ottocentesca molto popolari all’epoca di London. Ne parla anche Withman in “Foglie d’erba”: Rossini, Donizetti, Verdi venivano suonati dalle bande musicali americane. Quindi, quella che noi confiniamo negli spazi operistici, è già colonna sonora capace di raccontare il Nuovo Mondo.

-Ezio Raimondi, nelle pagine di Un’etica del lettore, sostiene che «un testo è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita», fornendogli il proprio respiro. Per lei è stato facile adattarsi al respiro delle pagine di London?

-No. Perché in generale il teatro è refrattario alla pagina letteraria, che ha troppi aggettivi, una costruzione sintattica spesso lunga. Il teatro necessita di frasi corte. Quindi devi accostare molto l’oggetto al predicato, non perdere di vista il soggetto. Per me la pagina di London, così come quella di Rigoni Stern (da cui è stato tratto lo spettacolo Il Sergente n.d.a.), non può essere semplicemente riproposta, ma va tradotta cercando degli equivalenti scenici. Non si può restare soggiogati dalla poesia del verso, bisogna ritrovare quell’incanto attraverso il linguaggio della scena.

-Questo spettacolo è nato come un vero e proprio viaggio nelle terre selvagge, lei lo propose per il festival Suoni delle Dolomiti come trekking di 4 giorni terminato oltre i 3000 m. di quota. Perché partire da quell’esperienza?

-Perché le gambe aiutano. E la stanchezza è stanchezza vera. Ti concentri sul necessario. Non è la regola, ma così facendo io riesco a superare certe preoccupazioni legate al lavoro di messinscena. Me ne sono reso conto preparando “Il Sergente”. Intuì che non potevo fare quello spettacolo senza andare in Russia, perciò mollai le prove e mi incamminai lungo il Don. Fu un bellissimo e faticosissimo viaggio. Lì capì quali sensazioni avrei poi dovuto evocare.

-Pensare a London fa tornare a mente le letture dell’infanzia: Zanna Bianca; Il richiamo della foresta. Che effetto fa riaffrontarlo da adulto?

-Ho trovato un mondo che da ragazzo non potevo cogliere, anche perché disponevamo di racconti purgati, editati con capitoli monchi, proprio perché destinati alla letteratura per ragazzi. Io poi non conoscevo altro al di fuori dei romanzi del Grande Nord. London è semplice, ma solo apparentemente; perché nelle sue pagine trovi cose che ti piacciono e altre francamente difficili da accettare, se non detestabili. Parte da esperienze concrete. Tutto ciò che scrive è una conquista, come la riscossa morale raggiunta con l’istruzione. La sua è una scrittura utile perché non impartisce lezioni; provoca e dà degli scossoni salutari.

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