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La Repubblica (Genova)-Il Sergente Marco

Il racconto del Reduce dai campi innevati della Russia diventa teatro puro

Esiste un lungo racconto del ritorno dei Greci da Troia, nel primo atto di “Orestea” di Eschilo, affidata a un soldato semplice, che monologa sulla sofferenza violenta dei graduati in guerra: Il racconto del Reduce è sempre teatro puro, e gli dà ora nuovo corpo Marco Paolini, riscrivendo e ripetendo una storia: “Il Sergente” evoca la vicenda di un singolo, dà il rendiconto di una spedizione sciagurata visto con gli occhi di uno che l’ha patita sulla propria pelle. Termina dopo cento minuti, con un quarto d’ora di spettacolo-capolavoro: ove si comunica “fisicamente” al pubblico la fine e la riapertura di quella storia. Si dà conto, prima, di come lo strazio dei ricordi della ritirata mortale Russia-Italia, tra le nevi e il gelo, nel secondo dopoguerra, abbia condotto un soldato italiano all’inaridimento, alla solitudine totale; e si dà conto, nel finale, di quali palpiti lo abbiano ricondotto a vivere. Nel 1954 quel soldato, Mario Rigoni Stern, riversò i suoi ricordi in un libro, “Il Sergente nella neve”, edito da Einaudi nel 1953. Paolini vi costruisce sopra questo suo ultimo spettacolo, compiendo anche altri e diversi viaggi: quello da lui stesso reiterato lungo la marcia narrata da Rigoni Stern; quello dell’anabasi del “sergente” Senofonte verso il mar Nero; e poi altri evocati, citati, ideati. Sullo sfondo, una carta dell’Europa dà conto dell’allargamento geografico-tematico dell’artista, dal Vajont, da Ustica e da Marghera, alle rive del Don. Vale a dire, dalla guerra privata dell’indagine civile alla guerra-guerra: per tutte, quella dell’ultimo conflitto mondiale. Due considerazioni. La prima sull’attore. Paolini non è, non pare un bel narratore, un avvincente aedo di epos privato o bellico. Marco Paolini è un teatro intero, uno che da solo soffia e disegna e muove le cento componenti di uno spettacolo di prosa. E’ un fenomeno attoriale assolutamente unico, di un magnetismo mica tanto spiegabile: visto che la narrazione ha tratti comici, parodici, divertenti, ma pure tratti faticosi. Paolini possiede una teatralità costitutiva del suo corpo, del suo sangue e della sua anima, una teatralità fisiologica. Sa tenere la platea con pochi mezzi, neppur tutti originali o efficaci, ma non sono i contorni, è lui a funzionare.

Traendo perfino da un paio di banali incidenti di sala, un black out elettrico e uno starnuto fragoroso, occasione di improvvisate battute stradivertenti.

La prova è che duecento adolescenti presenti nella sala della Corte non hanno emesso respiro per due ore, spettacolo nello spettacolo. La seconda considerazione riguarda la portata dell’intera operazione Rigoni Stern, chè così giusto chiamare una rielaborazione certamente, lungamente, vistosamente meditata. Nelle corde di Paolini può star tutto, e tutto trova fantastica collocazione.

Ma l’ispirazione civile è altra cosa rispetto a quella antibellica. L’ispirazione e lo spettacolo di contenuto civile incidono sulle cose, qualche volta possono perfino cambiarle, condizionarle. Ed emanano infine, ci pare, dall’artista, con più passione.

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