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La Repubblica – Il Sergente di Paolini alla guerra dei disperati

LONIGO - Non ci sono orizzonti di gloria nella guerra che Marco Paolini ci viene a raccontare col suo nuovo spettacolo Il sergente, che sta mettendo a punto in una serie di prove aperte e che debutta il 16 al Piccolo Teatro Strehler di Milano (dodici repliche, già tutto esaurito). Il Paolini di Vajont, di Ustica, di Parlamento chimico sui morti di Marghera, questa volta accantona il teatro di inchiesta e di denuncia. Se c’è da parlare di guerra, ora che l’abbiamo così vicina e presente, sceglie di tornare indietro, andare giù in fondo dove i combattenti sono naufraghi, poveri uomini sperduti, contadini che sognano di "tornare a baita". Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, testimonianza potente e indimenticabile, ma anche L’Anabasi di Senofonte: con questi due libri in tasca Paolini parte per "andare a vedere" che cos’è il Don della ritirata. Mescola, ripensa, riferisce, ed ecco la "sua" guerra.

Una scena spoglia, tre fondali a specchio che rimandano immagini deformate, una macchina da scrivere. Fedele al suo metodo artigiano, Paolini misura se stesso e la reazione del pubblico in questi giorni di prove. Aggiunge, toglie, corregge. E fatica a rispondere alle domande su che cosa sia questo spettacolo ancora da plasmare, e da dove venga. Soprattutto alla domanda più ovvia: perché raccontare la guerra? "No, in effetti non vorrei rispondere. Non vorrei, più che altro, rispondere dichiarando un’intenzione. Buttare lì un’opinione, dire d’aver capito tutto. Per Mario Rigoni scrivere è stato un anticorpo alla disumanità. Ecco, forse quello che sto cercando è un anticorpo alla disumanità della condizione di spettatore".

È un’illusione, dice Paolini, credere di esser spettatori di una guerra lontana: "Quando pensi di essere spettatore, sei vittima senza saperlo. Senza la coscienza che non puoi chiamarti fuori, che se rimuovi questa cosa dalla tua vita, stai già scivolando in una perdita". E si ritrova nella voglia di non arrendersi che era di Rigoni e dei suoi alpini: "Ma non come gesto di eroismo. Lui marciava nella neve portandosi in spalla il peso tremendo delle armi. I volantini russi dicevano: italiani, siete a 4 mila chilometri da casa, arrendetevi. Chi si arrendeva all’evidenza della realtà, alla stanchezza, chi rinunciava alle armi che aveva, a oliarle, pulirle e tenerle in efficienza, era finito. Io penso che la democrazia sia la nostra arma, quella che ha bisogno di manutenzione, e la dobbiamo curare".

Un teatro, questo del Sergente, che secondo Paolini certo non è denuncia e nemmeno medicamento dell’anima: "Io credo che il teatro non sia terapia, e nemmeno sia antidoto. Penso alla possibilità di attingere all’esperienza, e che questo serva alla memoria, serva a prepararsi meglio ad affrontare le cose. Un teatro forse come addestramento, come istruzione". E il suo racconto è quello di Rigoni: una guerra di poveri cristi, di disgraziati, di contadini alle prese con altri contadini. Ma è anche, a riprova che nulla cambia davvero, quello di Senofonte. Era stato Elio Vittorini - 1953, per la prima edizione - a chiamare il libro di Rigoni "una piccola Anabasi dialettale".

E nello spettacolo tornano pagine impressionanti dell’Anabasi di Senofonte, per analogia: "Venivano abbandonati quei soldati a cui la neve aveva rovinato gli occhi, e quelli a cui per il freddo eran andate in cancrena le dita dei piedi. Un modo di proteggere gli occhi dalla neve era marciare tenendo davanti agli occhi qualcosa di nero. Mentre un rimedio per i piedi era muoverli, muoverli, sciogliere i calzari perché quelli che dormivano coi calzari legati avevano le cinghie che gli penetravano nei piedi e gli si gelavano le suole. E quindi molti dei soldati restavano indietro. E altri si mettevano seduti, e altri si rifiutavano di cominciare a camminare".

Alpino-Oplita: quasi un anagramma. "Mi ha toccato l’epica di un’impresa disgraziata, non eroica. Mi fa scattare un orgoglio di identità. Niente di guerrescamente nobile, ma un disastro, un naufragio". Un naufragio, quello degli alpini di Rigoni, che è da invasori, "una condizione disonorevole, fonte di vergogna". "Sapevo bene - scrive Rigoni - che cosa eravamo noi per loro". Loro, quei contadini che Paolini è andato a cercare sul Don. Un viaggio appena concluso, che forse diventerà un cortometraggio, e che lui racconta nello spettacolo. "Ho trovato dei vecchi che, allora, hanno vinto la guerra. Ma hanno facce da vinti. Quando dicevo di essere italiano e gli chiedevo della guerra, si scioglievano. Pensavano di aver di fronte qualcuno più disgraziato di loro. Come se ci avessero visto naufragare e ci avessero tirato su".

Ed è nella immensa pietà contadina russa che anche Rigoni trova un appiglio per la speranza. Quando entra nell’isba e trova soldati russi intorno a una povera zuppa di latte e miglio. Chiede da mangiare, ne danno anche a lui. "Era una cosa molto semplice, anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini, un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini". Se questo è successo una volta, scrive il sergente, "potrà tornare a succedere". Sì, tutto torna a succedere. La guerra, la pietà. E non è consolatorio questo Sergente di Paolini, non voleva esserlo. Una discesa sul fondo, "dalla quale forse torni su". In una scena porta la sola, vera divisa della ritirata di Russia: una coperta sulla testa, la divisa di tutti i profughi. Gliel’ha regalata una vecchia, sul Don, "perché non si può fare un viaggio senza coperta".

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